A due giorni da Natale arriva l’Atto di Indirizzo del ministro dell’Istruzione contenente le priorità politiche per il 2019. Come già indicato dalla Tecnica della Scuola, si tratta di 11 punti di vari genere, per i quali il Miur ha assicurato di avere attivato “precise linee di azione”: si va dall’edilizia scolastica all’inclusione e al contrasto alla dispersione scolastica, dalla ridefinizione dell’alternanza scuola-lavoro al reclutamento e formazione del personale della scuola, passando per l’incremento delle attività sportive scolastiche, del diritto allo studio, il miglioramento della formazione superiore e della ricerca, la valorizzazione del sistema di valutazione nazionale, la prevenzione della corruzione, l’incentivo delle politiche di coesione e dei programmi comunitari nel settore istruzione.
Alcune delle priorità risultano davvero provvidenziali: la dispersione scolastica, ad esempio, rimane una piaga che nessun Governo è riuscito a curare, con la percentuale nazionale ancora 4 punti sopra il limite indicato da Bruxelles; anche il reclutamento appare un passaggio fondamentale, visto che a settembre, dopo il piano straordinario di assunzioni della Buona Scuola, sono state sottoscritte oltre 150 mila supplenze annuali.
Pure l’attenzione per il sostegno agli allievi disabili appare provvidenziale, anche se entra in contraddizione con la riduzione di spesa per i docenti specializzati, prevista nel prossimo triennio, con tagli fino al 30% inseriti nella manovra economica in via di approvazione.
Positiva è sicuramente la decisione di potenziare l’attività fisica a scuola, ad iniziare dall’affiancamento di quasi 12mila docenti specializzati nella primaria, dove sino ad oggi ci si era affidati a progetti spesso anche a carico delle famiglie degli alunni.
Tra i punti presentati non abbiamo però trovato quello sulla valorizzazione economica del personale. Tra l’altro, gli annunci sugli stipendi europei che meriterebbero i nostri docenti, uno dei cavalli di battaglia della campagna elettorale del M5S, sono stati confermati poche settimane fa, nel giorno delle proteste studentesche in tutte le principali città d’Italia: “prima di tutto dobbiamo avere soldi e risorse per ristrutturare le scuole, rilanciare i programmi didattici, ma soprattutto dare un compenso nella media europea tutti i docenti italiani”, ha confemato in un video pubblicato su Facebook il vicepremier Luigi Di Maio.
Ora, è chiaro che l’aumento stipendiale di quasi un milione di insegnanti non può essere quello previsto dalla Legge di Bilancio, nella quale sono stati stanziati solo i soldi necessari (poco più di un miliardo di euro, che crescerà nel biennio successivo) per evitare che con il 2019 gli stipendi di una parte dei dipendenti (della scuola e di tutti i comparti pubblici) venissero addirittura ridotti, a causa della cessazione del cosiddetto elemento perequativo, e per assicurare 40 euro lordi medi dipendente, con un incremento netto effettivo pari a 15-20 euro netti.
Quando si parla di stipendi europei, sarebbero invece necessari aumenti di ben altro spessore: si tratta di incrementi del 20-25%, che secondo i nostri calcoli devono prevedere un investimento di almeno 10 miliardi di euro: più di quanto è stato speso per coprire la spesa per il reddito di cittadinanza.
Ma il problema non è solo legato alla mancata volontà del Mef e del Governo di finanziare un provvedimento del genere. Ci sono anche dei “lacciuoli” normativi da superare, come i vincoli sul costo del lavoro sottoscritti da Governo e sindacati nel 1993 e nel 2009.
Nel 1993, abbiamo già fatto notare, amministrazione e organizzazioni sindacali sottoscrissero un accordo che prevedeva che gli aumenti contrattuali avrebbe potuto superare il “tasso di inflazione programmata”, con il tasso, cioè, fissato in via previsionale dal Governo stesso.
L’accordo venne rinnovato nel 2009 quando il “tasso di inflazione programmata” venne sostituito con l’indice IPCA, più vantaggioso per i lavoratori ma che comunque non consentirebbe in alcun modo un aumento degli stipendi dei docenti del 20-25%.
L’impegno, quindi, è bifronte: economico e legislativo. Lo sa bene, evidentemente, il ministro Bussetti, che si è guardato bene da fare qualsiasi cenno al tema stipendi nell’Atto di Indirizzo con le priorità politiche per il 2019.
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