Il punto centrale della relazione è relativo al rapporto tra istruzione, formazione e sistema produttivo che viene riportato così: “una maggiore disponibilità di capitale umano, inteso come patrimonio di conoscenze, competenze e abilità di cui le persone sono dotate, si associa a più elevati livelli di sviluppo; contribuisce ad aumentare la produttività sia direttamente, accrescendo la capacità della forza lavoro, sia indirettamente, incentivando l’adozione di tecnologie più avanzate”.
“Persino gli ulteriori indicatori di benessere economico e sociale, come le condizioni di salute o il senso civico migliorano in presenza di livelli di istruzione più elevati”.
“Nel nostro Paese il vantaggio, in termini di prospettive occupazionali e di reddito, derivante da un’istruzione più elevata è minore nel confronto internazionale, soprattutto per quanti hanno da poco concluso un percorso formativo”.
Eppure, ricorda ancora Bankitalia, “l’aumento della disponibilità di personale laureato a livello locale, attribuito all’avvio della laurea triennale”, ha come conseguenza “una maggiore attività innovativa e di ristrutturazione dei processi produttivi delle imprese e quindi, in ultima istanza, a una maggiore crescita della produttività”.
Secondo un altro studio di via Nazionale i meccanismi poco o per nulla meritocratici di selezione dei lavoratori da parte delle imprese, insieme alla limitata mobilità geografica dei lavoratori, “rendono l’incontro tra domanda e offerta di lavoro più costoso in Italia che in Germania e spiegano circa metà del divario in termini di tassi di innovazione e di istruzione universitaria tra i due Paesi”.
Insomma, chiosa La Repubblica che riporta nel dettaglio la relazione, siamo un Paese con una scarsa produttività legata a uno scarso livello d’innovazione causato da un basso numero di lavoratori ad alta qualificazione legato a una bassa percentuale di laureati.
Risultato, le famiglie s’impoveriscono, i giovani si scoraggiano e non s’iscrivono all’università, se poi s’iscrivono e si laureano se ne vanno in un altro Paese perché qui la laurea vale poco. Un corto circuito gravissimo che impedisce al Paese di crescere. Però non è solo questo: impedisce ai giovani di essere ambiziosi e agli imprenditori di pensare in grande. Soffoca la fiducia sul nascere e diffonde il cinismo, quel tanto peggio tanto meglio che sta uccidendo il Paese e sta facendo scappare chi non si rassegna all’immobilismo e alla mancanza di prospettive, commenta Repubblica.
Il fatto però che il problema sia continuamente sollevato sia dalla Banca d’Italia, sia dall’Istituto Centrale di statistica e sia inoltre dai tanti centri di studio privati, a cominciare dal Censis, non pare faccia smuovere più di tanto l’interesse della politica e soprattutto da parte di chi governa, mentre ricordiamo gli anni dell’attacco alla scuola in termini di tagli passati sulle canoe traballanti delle riforme che avrebbero dovuto migliore e rendere più efficiente la navigazione dell’istruzione italiana.
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