Nell’anniversario della nascita di Giovanni Falcone, il 18 maggio, Gian Carlo Caselli e Gherardo Colombo si scontrano sul sistema dei collaboratori di giustizia come strumento di contrasto alla mafia: è avvenuto nel corso della diretta della Tecnica della Scuola dedicata al trentennale delle stragi di Capaci e di via D’Amelio.
A fare scattare la polemica, la domanda, evidentemente spinosa, degli studenti: “Cosa ne pensate del sistema dei collaboratori di giustizia”? È allora che i due magistrati – Gherardo Colombo in realtà si è dimesso, come lui stesso fa notare – rivelano una posizione diametralmente opposta su un pezzo essenziale del metodo Falcone.
L’ex procuratore della Repubblica del tribunale di Palermo, Caselli, risponde: “L’uso dei pentiti per le indagini e per i processi contro la criminalità organizzata è indispensabile, dal momento che queste organizzazioni si fondano sul segreto e i pentiti ci consentono di penetrare questo segreto e grazie a ciò di contrastare il fenomeno mafioso”.
“Ovviamente – puntualizza il magistrato – c’è anche il problema morale ed etico: il pentito è colui il quale ha commesso degli omicidi, anche tanti, tantissimi, ma proprio perché ha commesso questi omicidi, conosce i segreti che riguardano il funzionamento del sistema mafioso e li può raccontare allo Stato, che così ha una sorta di password, di grimaldello per entrare dentro la complessità e la segretezza dell’organizzazione mafiosa”.
E al tempo stesso raccomanda: “Non chiamiamoli pentiti ma collaboratori di giustizia e se qualcuno continua a usare il vecchio detto chi fa la spia non è figlio di Maria, ricordiamoci che nel loro caso è una spia benedetta”.
Alle argomentazioni di Caselli, Gherardo Colombo contesta: “Se prometto a una persona se parli io ti tratto male e se non parli ti tratto anche peggio di come vengono trattati gli altri,” faccio qualcosa che è contrario alla Costituzione, che ci chiede di trattare tutti secondo il principio di uguaglianza, a prescindere da razza, colore della pelle, e via dicendo, e “non è che venga scritto salvo che tu sia un mafioso. La Costituzione non fa distinzioni”.
“Dovremmo rimanere entro dei limiti di rispetto dell’articolo 3 della Costituzione ed entro dei limiti di umanità – continua l’ex magistrato -. Il processo penale non ci ha aiutato in modo definitivo a marginalizzare la mafia. Oggi la mafia in Lombardia c’è, qualche anno fa non c’era. Dovremmo chiederci quale sia il rapporto tra le misure che si adottano e le conseguenze”. E tira in ballo l’educazione e la prevenzione come strumenti prioritari rispetto al potere giudiziario e alle sue formule repressive.
Gian Carlo Caselli torna a dissentire: “La mafia è nemica della Costituzione, che all’articolo 3 ci chiede di fare quanto possibile per rimuovere gli ostacoli che si frappongono a una uguaglianza sostanziale, un dettato contro il quale proprio i mafiosi sparano picconate”.
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