Come è ormai noto, dopo la pubblicazione del dossier di Tuttoscuola, sono donne l’81,5% dei docenti che insegnano nelle scuole italiane: il 99% nella scuola dell’infanzia, il 96% alla primaria, i due terzi alle superiori.
Se tuttavia si guardano le iscrizioni all’università “abbiamo solo il 22% di ragazze che scelgono percorsi di studi in area scientifica, ma nelle scienze dell’educazione la femminilizzazione ha il sopravvento, visto che la presenza maschile non supera il 5%. Da qui la domanda: perché investiamo tanto nell’avvicinare le ragazze alle Stem e non facciamo nulla per far sì che più uomini si avvicinino alle professioni educative? Perché questo, in fondo, ci va bene così?”. Così l’esperta intervistata da Vita.it.
Che continua: “Abbiamo bisogno di modelli educativi complementari. Ne hanno bisogno i bambini e le bambine, i ragazzi e le ragazze” per cui nelle organizzazioni che si occupano di educazione si sta iniziando a “discriminare” all’incontrario, cercando di inserire nei servizi più uomini.
“In Svezia -precisa la sociologa- qualche anno fa diedero delle borse di studio agli uomini che si iscrivevano a scienze della formazione, mentre in Italia non abbiamo ancora pensato ad azioni positive in questo senso”.
Inoltre, è vero, continua ancora la sociologa, che l’educatore uomo “è sempre una quota residuale e una delle motivazioni è che si tratta di professioni poco pagate, che non consentono il sostentamento di una famiglia e quindi non scelte dagli uomini. Nel modello tradizionale, che vede l’uomo come breadwinner, un uomo non sceglie queste professioni. Io sono convinta che una delle ragioni per cui in Italia si investe poco nell’istruzione rispetto agli altri paesi europei è proprio perché si considera l’educazione un lavoro da donne.
“Ma quando una professione è eccessivamente femminilizzata, quando non c’è un bilanciamento di presenze, questa perde di risorse, di investimenti e di riconoscimento sociale: voglio dire, per gli uomini è normale chiedere avanzamenti di carriera e stipendi più alti, per le donne no. A scuola così il maestro era stimato e riconosciuto, la maestra invece non ha mai avuto quel grado di rispetto”.
Tuttavia, e qui sta il problema della eccessiva femminilizzazione dell’istruzione, gli squilibri di genere in qualsiasi professione rafforzano ulteriormente la presenza del genere “dominante”, mentre la presenza di uomini nei contesti educativi trasmetterebbe ai bambini e alle bambine un messaggio importante su cosa un uomo può diventare rompendo molti stereotipi su cosa è una professione da donne e cosa è una professione da uomini.
Dunque “una più equa rappresentanza di genere nell’educazione è necessaria: per non sottrarre ai bambini e alle bambine la possibilità di misurarsi sin da piccoli sia con il codice femminile che quello maschile. Se tu hai solo un codice di riferimento, non hai la possibilità di un confronto con un altro codice e di un allenamento in termini di dialettica, di postura, di atteggiamento. C’è un appiattimento. Non dai ai bambini la possibilità di allenarsi all’altro e all’altra”.
Infatti, se il bambino avrà una pluralità di codici educativi, potrà imparare che da grande può fare anche quel lavoro. Impara che anche un uomo può prendersi cura e che la cura non è solo affare delle donne.
“I bambini assorbono dei modelli di separazione, è indifferente ai fini di questo ragionamento se il contesto è a prevalenza maschile o femminile: assorbo il modello della separatezza e della conformità di genere e quindi lo riporteranno. Perpetueranno il fatto che ci sono giochi per bambine e per bambini, lavori da maschio e lavori da femmina, comportamenti appropriati ai maschi e comportamenti appropriati alle femmine. Se ci aggiungiamo anche il fatto che il corpo educativo e insegnante oggi non ha una formazione sul genere, dobbiamo ammettere che siamo completamente sguarniti da questo punto di vista”.
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