Riceviamo e volentieri pubblichiamo il contributo di Giovanna Lo Presti (CUB SUR) sulla Giornata delle donne.
Uno dei modi più efficaci per affossare questioni complesse e farle incancrenire senza che si approdi ad una loro soluzione è semplificarle indebitamente. La complessità esige ragionamenti ed interventi ben articolati e respinge l’illusione che, mutando di segno, da un “più” ad un “meno”, il problema si risolva.
Nel giorno della festa della donna è bene ricordare che, purtroppo, le donne non sono di per sé, per il solo fatto di essere donne, portatrici di novità e di cambiamenti positivi. Abbiamo visto troppe donne percorrere una carriera brillante senza derogare da deprecabili comportamenti consolidati degli uomini di potere; e troppe, tutti i giorni, si rendono subalterne anche quando avrebbero la possibilità di dire la loro e di protestare. Non diversamente fanno gli uomini.
La discriminazione nei confronti delle donne si manifesta spesso in forme subdole e che non è facile definire senza correre il pericolo di dire qualcosa di sgradevole proprio su quelle donne di cui si vorrebbero difendere le ragioni: però stare zitti, per il timore di offendere la suscettibilità di qualcuno, è peggio e serve soltanto a prolungare situazioni che dovrebbero essere affrontate.
Un esempio particolare di discriminazione ce lo offre la scuola italiana, in cui il corpo docente è all’83% donna. La schiacciante preponderanza femminile nella scuola è appunto uno di quei problemi complessi cui si accennava all’inizio, vecchio di decenni e comune ad altri Paesi europei, ancorché l’Italia abbia un primato indiscusso.
Ci verrebbe la tentazione di adottare il titolo di un articolo che l’antropologa Ida Magli dedicò nel 2015 alla questione: “Troppe donne, il male oscuro della scuola”.
Articolo controverso e polemico, ma che ha il coraggio di affrontare la questione senza infingimenti e di approdare alla domanda centrale: “Dunque, i maschi non hanno proprio nulla da insegnare ai loro figli?” In realtà, i maschi, qualcosa da insegnare ai figli ce l’hanno, ma soltanto quando questi sono grandi ed approdati all’Università: dei 12.303 professori ordinari, le professoresse ordinarie sono 2.952, uno scarso 25 per cento. Perciò anche i maschi possono insegnare, ma a tutt’altre condizioni lavorative e socio-economiche.
Come spiegare la schiacciante presenza femminile alle materne e alle elementari se non con una inevitabile omologazione dell’insegnante alla mamma? Certo non è positiva la totale mancanza di figure maschili: si consolidano così i più radicati stereotipi di genere, che stabiliscono che soltanto una donna sia in grado di accudire ad un bambino, ponendo su un piano naturale un dato propriamente culturale, anche se fortemente radicato.
L’insegnante-mamma è indubbiamente una iattura per le nostre scuole, per la natura ibrida del suo ruolo che, spesso, va a favore dell’accudimento e a danno della trasmissione di sapere. Va da sé che la situazione diviene complicata da gestire nelle scuole in cui il disagio sociale è più forte; le maestre-mamme spesso non ce la fanno e non ce la fanno nemmeno le colleghe delle scuole medie, vittime del burnout e della mancanza di identità professionale, prese come sono tra la necessità di soffiare il naso ai piccoli e/o di insegnar loro a leggere e a scrivere.
Questo fenomeno, in altre forme, si ripresenta in vasti settori delle scuole superiori.
Lo scivolamento verso una scuola come luogo di accudimento dei minori ha trovato nella schiacciante femminilizzazione del corpo docente una spinta non da poco. Per inveterata consuetudine (non per natura, sia ben chiaro) le donne sono più portate a cercare un aggiustamento nelle difficoltà, a lamentarsi e a tirare avanti.
La pazienza, massima tra le virtù, trova qui un’applicazione per così dire degradata e si trasforma in sopportazione; la costante abitudine ad occuparsi degli altri (anche questa, non naturale ma acquisita) fa sì che il numero di insegnanti pronto a “sacrificarsi” per il “bene degli studenti” sia altissimo. Tutto questo va a detrimento dell’insegnare e anche dello stabilire con i più giovani un rapporto autorevole, in cui l’adulta non venga confusa con un succedaneo della genitrice. Ma la nostra scuola è fiacca, una stanchezza giustificata perché lo stipendio di un’insegnante non consente di avere un aiuto domestico e, vista l’età media, sulle insegnanti gravano l’accudimento della casa, dei figli e dei genitori anziani.
Nella giornata in cui si celebra la festa di tutte le donne bisogna avere il coraggio di dire che esiste una discriminazione di genere che non esclude ma che, anzi, seleziona le donne come soggetti ideali per far slittare verso il lavoro di cura un intero settore, quello dell’istruzione, che, soltanto a parole, è vitale per il Paese.
Se il mestiere dell’insegnante fosse attrattivo, non ci sarebbe alcuna ragione per una così schiacciante preponderanza femminile. Ma, al momento, questo che molti si ostinano a definire ipocritamente “il mestiere più bello del mondo” offre, dopo l’incertezza degli anni di precariato, 1.500 euro medi di stipendio mensile, condizioni di lavoro spesso difficili e un prestigio sociale prossimo allo zero.
Intanto la “scuola di carta” con la sua ottusa burocrazia sovrasta la scuola reale; caduta ogni tensione verso la possibilità che la scuola sia volano per una società migliore, si pratica la palestra dei buoni sentimenti, dell’“inclusione” (a parole), delle metodologie didattiche innovative che durano lo spazio di un quadrimestre. E le donne insegnanti accettano rassegnate, mentre i pochi colleghi uomini sembrano spesso ancor più disorientati di loro.
Questo il quadro generale, preoccupante. Dovrebbero essere proprio le donne insegnanti a rialzare la testa e a fare richieste concrete: in primo luogo uno stipendio che permetta loro di essere autonome e di mantenere la propria famiglia.
La gabbia salariale della scuola non ha matrice geografica ma di genere: sarebbe ora di chiederne l’abolizione e di prendere la parola denunciando tutto quello che a scuola proprio non va, recuperando così, in un sol colpo, la dignità personale, lo spirito di collaborazione e confronto con i colleghi e, soprattutto, la dimensione culturale e sociale del proprio lavoro.
La scuola, per cambiare in meglio, non può che contare sulle donne e sul moto di orgoglio che, speriamo, le muoverà in tempi brevi alla protesta.
Giovanna Lo Presti
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