L’Italia negli ultimi anni ha fatto registrare notevoli progressi sul fronte degli abbandoni scolastici: tuttavia, la quota resta tra le più alte dell’Unione europea. Il dato è riportato nel Report Istat sui livelli di istruzione del 2020. Per renderci conto della portata del fenomeno, basta dire che in Italia l’anno scorso la quota di giovani che hanno abbandonato gli studi precocemente è stata pari al 13,1%, per un totale di circa 543 mila ragazzi: pur essendo in leggero calo rispetto all’anno precedente, stiamo comunque parlando di una quantità di giovani altissima. È come se una città come Trento sparisse dalla mappa geografica.
E questi dati fanno ancora più male se si pensa che la Francia ha raggiunto il valore target, sotto il 10% medio di abbandono della scuola, già da diversi anni. E la Germania lo ha praticamente raggiunto nel corso del 2020.
In Italia, l’abbandono scolastico caratterizza i ragazzi (15,6%) più delle ragazze (10,4%) e per queste ultime si registra una diminuzione anche nell’ultimo anno (-1,1 punti).
I divari territoriali sono molto ampi e persistenti. Nel 2020, l’abbandono degli studi prima del completamento del sistema secondario superiore o della formazione professionale riguarda il 16,3% dei giovani nel Mezzogiorno, l’11% al Nord e l’11,5% nel Centro.
Tra i giovani con cittadinanza non italiana, il tasso di abbandono precoce degli studi è più di tre volte superiore a quello degli italiani: 35,4% contro 11,0%.
Sono percentuali giustificate dal fatto, sottolinea l’Istat, che la dispersione scolastica è fortemente condizionata dalle caratteristiche socio-economiche della famiglia di origine. Incidenze molto elevate di abbandoni precoci si riscontrano quindi dove il livello d’istruzione o quello professionale dei genitori è basso: se i genitori esercitano una professione non qualificata o non lavorano, gli abbandoni scolastici sono più frequenti (intorno al 22%) e si riducono se la professione del padre o della madre è altamente qualificata o impiegatizia (3% e 9%, rispettivamente). E il fenomeno è più evidente nelle regioni meridionali.
La forbice sui livelli di istruzione si allarga anche rispetto all’Unione Europea: in Italia solo il 20,1% della popolazione (di 25-64 anni) possiede una laurea contro il 32,8% nell’Ue.
Sempre nel Belpaese, l’anno scorso la quota di diplomati è stata pari a 62,9% (+0,7 punti rispetto al 2019), contro la media europea (Ue27) del 79%.
Pure la quota dei 25-64enni con un titolo di studio terziario in Italia è molto bassa, essendo pari al 20,1% contro il 32,8% nella media Ue27.
Il livello di istruzione delle donne rimane sensibilmente più elevato di quello maschile: le donne con almeno il diploma sono il 65,1% e gli uomini il 60,5%, una differenza ben più alta di quella osservata nella media Ue27, pari a circa un punto percentuale. Le donne laureate sono il 23,0% e gli uomini il 17,2%; il vantaggio femminile, ancora una volta più marcato rispetto alla media Ue, non si traduce però in analogo vantaggio in ambito lavorativo. Anche le donne straniere hanno un livello di istruzione più elevato
Sempre nel 2020, il 24,9% dei laureati (25-34enni) ha conseguito una laurea nelle aree disciplinari scientifiche e tecnologiche: le cosiddette lauree Stem, Science, Technology, Engineering and Mathematics.
Il divario di genere è molto importante, se si considera che tra i ragazzi si tratta di un laureato su tre (in prevalenza al Nord), tra le ragazze solo una su sei. Tra le donne, invece, la quota di laureate Stem nel Nord è di qualche punto inferiore a quelle del Centro e del Mezzogiorno.
Secondo la Cgil quello che arriva dall’Istat è un “quadro emergenziale” che “rende evidente quali siano le misure da attuare con urgenza”.
Il sindacato ritiene che occorre “innalzare l’obbligo scolastico e mettere in campo un sistema di formazione permanente che consenta a tutti di continuare ad apprendere e ad ampliare le conoscenze, le capacità e le competenze”.
“Se davvero l’istruzione è considerata centrale in Italia, come affermato al termine della Cabina di regia dal Presidente del Consiglio Draghi”, continua la Cgil, “dobbiamo far sì che le risorse stanziate dal Piano di ripresa e resilienza, tra cui 17 miliardi per la scuola e 6 per la ricerca, si trasformino subito in investimenti per fronteggiare questa emergenza. Occorre ridurre i divari territoriali e abbassare drasticamente i livelli dell’abbandono scolastico”.
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