Gli episodi di violenza che stanno, quasi ogni giorno di più, riempiendo le pagine di cronaca, con risse o molestie di vario tipo, non possono essere lasciati passare come fatti ordinari, o rientranti nel novero delle solite notizie di cronaca nera. Cioè eccezioni rispetto ad una regola, cioè ad una convivenza sociale tranquilla.
No, non possiamo lasciar passare, ma cercare invece di andare oltre, per capire le ragioni o le cause e trovare dei rimedi che dicano che alcune soluzioni sono possibili.
Lo sappiamo, oramai siamo abituati a rimandare ogni situazione critica al tempo della pandemia, quasi possa essere derubricata come causa di tutto, con la socialità che è stata bruscamente e per tutti ridotta al lumicino. Parlo della socialità de visu, cioè diretta, quella che siamo stati abituati a vivere in forma anzitutto fisica, di persona, con tutte le complessità che, in particolare negli adolescenti e nei giovani, ben conosciamo.
E per molti probabilmente le cose stanno così. Parlo sempre degli adolescenti e dei giovani, sapendo poi che il limite della giovinezza negli anni si è spostato sempre più in avanti. Perché sono questi che hanno sofferto di più nel lockdown, prima mentale e poi fisico.
Del resto, se la vita è relazione, sono questi gli anni nei quali si vive quasi gettati fuori da se stessi, e assorbiti, nel processo di identificazione personale, dalla logica di gruppo, cioè dei “pari” che ci possono così aiutare a sentirsi se stessi. In altri termini, l’io si sente e si riconosce attraverso gli altri, ma in difficoltà a guardarsi allo specchio solo per se stesso.
Se la relazione mentale e fisica, come si è detto, è andata in crisi sono stati, al tempo stesso, i social, in particolare con le nuove piattaforme, a garantire, anche se virtualmente, un qualche collegamento, cioè un qualche legame, una qualche relazione.
Penso qui, tra tutti, a TikTok, con una logica comunicativa veloce, istantanea, anche se frammentaria, con i video modalità di gran lunga preferita. Perché racconto in diretta, senza la mediazione delle parole, e quindi della complicazione dei concetti che dovrebbero supportarle. Uno strumento nato nel 2016 in Cina, ora di facile uso per tutti. Quasi a dire che si è affermato perché strumento che si autoalimenta anzitutto perché strumento globale, nonostante la crisi odierna della globalizzazione da anni novanta, e poi perché di facile utilizzo.
Uno strumento, dunque, che è stato scelto perché si è rivelato quello più utile a riannodare le fila delle relazioni sospese, tanto da essere usato per autoconvocazioni estemporanee, come nel caso delle risse o di altre forme organizzate. Uno strumento, dunque, di costruzione anche di un branco, di un gruppo finalizzato, dunque di un gruppo dei “pari” (per età o per convinzioni).
Ma uno strumento funzionale a chi?
E qui viene il secondo elemento, oltre allo strumento.
Parlo della formazione composita di questi gruppi che si formano attraverso e grazie a questi strumenti.
Penso qui anzitutto, ma non solo, a quelle frange marginali che sentono il bisogno vitale di riconoscersi e trovarsi per un’azione, una ragione o uno scopo. Quasi a dire: noi siamo quello che facciamo.
Se, cioè, uno strumento non è di per sé buono o cattivo, ma queste qualità dipendono dall’uso che se ne fa, possiamo facilmente immaginare come qui entri in gioco il fattore scatenante, cioè l’obiettivo specifico che viene proposto da qualcuno che si sente investito da un qualche ruolo guida. Perché, lo sappiamo, in tutti i gruppi dei “pari” i ruoli vengono assegnati o vengono scelti, ma i ruoli devono essere ben chiari, come gli ordini di scuderia.
Nei processi di identificazione l’identità offerta a chi ne sente la mancanza diventa perciò una ragione di vita.
E nei gruppi autoformati una ragione può significare la canalizzazione di una azione, di una energia vitale, che sia in grado di identificare il gruppo ed il suo stile di relazione distinta dagli altri gruppi, come timbro di originalità.
Che cos’è in fondo la vita, se non lotta per il riconoscimento?
In questi casi, dicevo, per chi decide di far parte di uno di questi gruppi, troviamo di tutto. A partire da coloro che si sentono non riconosciuti. Dai cosiddetti bravi ragazzi che poi si trasformano quando si fanno branco, a gruppi di immigrati che faticano ad integrarsi, sapendo anche dei difficili, a volte, rapporti tra etnie diverse, a tipologie di disagio di vario tipo che si condensano in forme diverse di violenza.
Perché la violenza, cioè il dir di sì alla vita come costruzione di un proprio spazio vitale, diventa lo strumento per questa autoaffermazione, per questo sentirsi vivi in se stessi e nel branco.
Che cosa non sopportano questi gruppi?
Non accettano il senso del limite, che ritroviamo nel principio di libertà come responsabilità, cioè nella reciprocità di ogni azione e reazione.
No, per loro libertà vuol dire indifferenza ai modi e ai contesti, perché, come ripeterebbe il futurista Marinetti, è questa violenza “la sola igiene del mondo”.
Quando mi capita di ragionare con i giovani, e non solo, su questi aspetti critici del mondo odierno porto sempre a corredo due citazioni.
La prima di Kant, sull’umanità sempre come fine e mai come mezzo; e la seconda di Sartre de “l’inferno sono gli altri” (che lui costruì per criticarla).
Per poter cogliere il senso di queste citazioni ci vuole un passaggio che non è scontato in queste realtà vitaliste, oggi ben rappresentate dalla follia della guerra. Ci vuol e la capacità di ognuno di pensare universalmente: “se tutti facessero così”, che è il cuore di ogni domanda etica.
Che sia, tornando da capo, questa mancanza di senso del limite, riassunta da queste citazioni, tutta a carico dei due anni e mezzo di pandemia, con la crisi della socialità diretta, oppure che la pandemia non abbia fatto altro che portare allo scoperto una inquietudine, non mediata da famiglie, scuole, luoghi sociali, che prima o poi doveva esplodere?
Credo che, a questo punto, ognuno, tra gli attori politici e sociali, debba fare la propria parte per rispondere a questa inquietudine.
Per gli adolescenti ed i giovani, oltre alle famiglie (quando ci sono), c’è la scuola che ogni giorno cerca di costruire relazioni aperte, significative. Unico luogo oggi rimasto per il suo servizio universalistico, nel senso che tutti i ragazzi ed i giovani sono tenuti alla frequenza, sapendo che i compagni noi non ce li scegliamo. Sapendo che il suo valore primo, al di là di materie ed indirizzi di studio, è la maturazione equilibrata, secondo talenti e capacità, del sentiero di speranza di ciascuno.
Ma la scuola e le famiglie da sole possono solo sino ad un certo punto. Per cui gli attori sono anche altri, a partire dalle istituzioni pubbliche.
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