In questi giorni si sta parlando molto delle parole pronunciate dal padre di Filippo Turetta, l’assassino (ancora presunto) della giovane Giulia Cecchettin. Dopo la loro diffusione l’uomo è stato travolto dalle polemiche e accusato di aver difeso il ragazzo e minimizzato il suo gesto gravissimo.
Al di là del contenuto dell’intercettazione, che non spetta a noi commentare né tantomento giudicare, è interessante il commento, arrivato oggi su Il Libraio, dello scrittore e docente Enrico Galiano. Ecco le sue parole:
“Quando ho letto la trascrizione del padre di Filippo, anche io ho avuto un moto di disgusto: com’è possibile che abbia detto una frase del genere? Il sangue va subito alla testa, quando leggi cose del genere. Le dita vorrebbero correre subito a sfogare tutta la tua indignazione sui social. Perché non ci credi che qualcuno possa averlo detto davvero.
Poi subito dopo, però, per fortuna è arrivato il barlume di lucidità. Quello che ti fa chiedere: sì, ma in che contesto sono state dette, quelle parole? E quante cose non so, io, di quella famiglia, del dolore che può provare un padre il cui figlio ha fatto una cosa del genere? E mi sono fermato. Grazie al cielo mi sono fermato.
Non così tanti altri commentatori, che ci sono cascati in pieno: chi ha diffuso quelle parole voleva esattamente questo, la feroce gogna social. E ci è riuscito alla grande.
Dobbiamo guardarci in faccia e dircelo, con grande sincerità: abbiamo perso il senso della misura. Pensiamo che tutto sia commentabile, che tutto sia condannabile. Abbiamo trasformato la piazza virtuale in un’eterna Place de la Concorde, la piazza dove fu ghigliottinato Luigi XVI e dopo di lui migliaia di ‘nemici della Rivoluzione’: una piazza sempre attiva, dove aspettare solo il prossimo colpevole da insultare e contro cui puntare il dito e il nostro sdegno.
Cosa ci sta succedendo? Davvero non riusciamo neanche per un attimo a empatizzare con un padre che si ritrova dentro una stanzetta colloqui di un carcere, un padre il cui figlio ha commesso uno dei crimini più orribili che si possano immaginare?
Come facciamo a sapere cosa si prova? Come facciamo anche solo a dire una singola parola di giudizio? Come facciamo a ergerci così disumanamente a inquisitori, senza attingere dal nostro cuore almeno un po’ di comprensione umana di un dolore così inimmaginabile?
E soprattutto: come facciamo a sapere perché il padre può aver detto parole del genere? Con quale intento o, addirittura, per evitare che cosa?
Diffondere quelle parole: è questo solo il gesto da condannare. Perché ci sono spazi di intimità di cui anche gli assassini hanno il sacrosanto diritto, e se decade quello poi decade tutto. Torniamo a uno Stato dove il diritto è prerogativa solo di alcuni, e dove i peggiori istinti possono essere scatenati con un niente. Torniamo a essere quello che eravamo prima che i social ci trasformassero in giudici senza pietà. Torniamo a essere umani”.
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