“Tutela dei beni comuni: scuola pubblica, acqua pubblica, revisione delle concessioni autostradali”.
A fronte di questo decimo punto proposto dal Movimento 5 stelle per la trattativa di Governo, si avverte la necessità di un chiarimento di termini. L’incompetenza, infatti, ha gettato in poco più di un anno l’Italia nell’ennesima crisi e la semplificazione è un lusso che i cittadini non possono più permettersi.
Innanzitutto, “pubblico” non equivale a “statale”. Non è pubblico ciò che è statale, ma ciò che nasce per il popolo (Risoluzione dell’Assemblea parlamentare del Parlamento europeo n. 1904, F-67075, Strasburgo, 4 ottobre 2012): “Publicum est pro populo”.
Nel corso degli anni, tuttavia, i due termini sono stati erroneamente intesi come sinonimi: un equivoco alimentato dal fatto che, in Italia, lo Stato ricopre il ruolo di gestore del servizio scolastico. Nei servizi dove lo Stato, da soggetto gestore, è divenuto soggetto garante (regolatore), esso ha consentito l’utilizzazione di strutture private: pensiamo ai sindacati, ai trasporti, agli ospedali. Nell’ambito della scuola, invece, si è determinata una confusione abilmente strumentalizzata da chi contrappone, oltre ogni diritto, “interesse pubblico” e “gestore privato”.
Si ricorda, a tal proposito, che la Costituzione italiana non solo riconosce, bensì auspica l’iniziativa privata al servizio della Societas. Ci sono anzi norme (artt. 41 e 42) che sollecitano una collaborazione sinergica tra attività privata e attività statale. Anche per quanto riguarda il servizio dell’istruzione, dunque, Stato e Privati – questi ultimi sulla base del principio di sussidiarietà (art. 118), che riconosce l’autonoma iniziativa privata, e dell’art. 4, comma 2, che impone a ciascun cittadino il “dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, una attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società” – a pari titolo cooperano per attuarlo mediante l’istituzione e gestione delle scuole. Statale e Privato condividono la medesima finalità ed erogano, a pari titolo, un servizio scolastico pubblico. E che la qualifica di “servizio pubblico” non derivi dall’essere “soggetto gestore” appare confermato dal modello europeo.
Appare, dunque, fuorviante continuare a domandarsi se la Costituzione italiana si fondi su un Pluralismo Educativo o su un Monopolio: dal percorso giuridico compiuto emerge chiaramente una Costituzione che si ispira “al principio pluralistico” (C. Mortati), per cui ’istruzione pubblica non è esclusiva materia d’interesse dello Stato, ma è legittimo oggetto di diritto anche dei cittadini. Pertanto:
– la libertà di istituire scuole (libertà della scuola), è tra i diritti fondamentali per la disciplina dell’intero sistema dell’istruzione pubblica;
– è un diritto che sta alla base delle moderne democrazie, senza il quale esisterebbe solo la scuola di Regime;
– è un “diritto riconosciuto alle persone fisiche e giuridiche” (Corte cost. n. 36/
1958); la dottrina lo ha qualificato come un vero e proprio diritto soggettivo, “pubblico… perfetto” e precettivo;
– lo Stato ha pertanto il dovere giuridico, anch’esso perfetto, di non creare turbativa nell’esercizio di tale diritto;
– è un diritto che va “inteso quale attività imprenditoriale… che appartiene alla libera iniziativa economica”.
Qual è, allora, in Italia l’anello mancante per passare dal riconoscimento alla garanzia del diritto alla libertà di scelta educativa della famiglia?
La contemporanea presenza delle tre libertà di insegnare, di istituire scuole e di scegliere i luoghi di istruzione conferisce, come abbiamo rilevato, carattere pluralistico al sistema di istruzione delineato dalla Costituzione. Ma le prime due libertà apparirebbero svuotate di contenuto senza la terza. Pertanto, posto che non ci può essere libertà di scelta educativa se non viene garantita la libertà economica per il suo esercizio, l’unico modo per rispettare fedelmente il dettato costituzionale è quello di individuare un meccanismo virtuoso per garantire, a costo zero, i diritti riconosciuti. L’alternativa è l’istruzione di regime, costosissima (10.000 euro annui per alunno) e qualitativamente infima. Tertium non datur.
Con precise e accurate ricerche, è stato ampiamente dimostrato che l’unica strada percorribile per uscire da questa situazione di stallo è quella del costo standard di sostenibilità: una quota (di circa 5.500 euro annui per studente) da corrispondere alla famiglia affinché sia spesa per l’istruzione dei figli. Sarà poi la famiglia stessa a decidere dove spendere tale quota, se in una scuola pubblica statale o in una scuola pubblica paritaria. Il ruolo dello Stato in tutto questo? Quello di garante e controllore. Solo in questo modo il sistema scolastico italiano riuscirà ad emergere da una situazione di costante allarme rosso.
Le famiglie potranno scegliere la buona scuola pubblica che desiderano, gli allievi avranno garantito un servizio decisamente migliore e non saranno in balia di frequenti cambiamenti di insegnanti; a questi ultimi sarà possibile scegliere dove esercitare la propria professione, se nella scuola pubblica statale o in quella pubblica paritaria, con uno stipendio uguale, come avviene nel resto d’Europa. Finalmente.
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