Il rapporto stretto fra le decisioni relative alla gestione delle scuole ed i dati della diffusione del COVID dovrebbe essere l’unico elemento considerato dal decisore politico.
E’ di tutta evidenza, invece, che il decisore politico italiano, almeno a livello centrale, ha deciso finora la ripresa delle attività scolastiche in presenza e sembra orientato a decidere la riapertura delle scuole a dicembre, per dirla con Totò, a prescindere dai dati reali.
Non voglio parlare dei trasporti o di condizioni e strutture esterne alle scuole. No, voglio parlare solo dell’ambiente interno.
Se quella della mancata valutazione dei dati reali sembra una affermazione forte ed infondata, allora provate a seguire i ragionamenti che farò.
“La scuola è il luogo più sicuro, dove con l’applicazione di misure e parametri precisi, ci si garantisce dal contagio”.
Diamo per buona questa affermazione spesso ripetuta come un mantra, a partire da settembre, dal Ministro Azzolina per giustificare la decisione di riaprire e mantenere aperte le scuole fino a quando alcune decisioni locali (Campania, Puglia) non hanno costretto, con l’ultimo DPCM, a rivedere la scelta di “scuole aperte a prescindere”.
Per giustificare, però, questa affermazione sulla scuola come luogo sicuro bisognerebbe avere e diffondere in trasparenza dati certi sulla presenza di un bassissimo numero di contagiati nelle scuole italiane ma anche dimostrarne, attraverso un minimo di tracciamento, l’origine esterna all’ambiente scolastico.
In mancanza di questo, le affermazioni sulla scuola sicura o sono fideistiche o sono veicolo di propaganda.
Non volendo citare le notizie giornalistiche che parlano di difficoltà nel reperire dati omogenei nelle scuole inviterei, allora, ad una indagine empirica che ognuno di noi, insegnante o genitore con i figli frequentanti, può fare oggi o aver fatto nelle scorse settimane.
Certo, questo non può significare attribuire dignità di “statistiche attendibili” ad un sistema alla pollo di Trilussa ma se a livello di singola scuola si verifica che non è possibile sapere con certezza nemmeno quanti studenti risultano positivi al Covid, negativi dopo l’infezione o contatti stretti di sicuri positivi come si fa a riaprire le scuole?
Perché non è possibile? Perché o i dati provengono dalla ASL o provengono dalle famiglie.
Tertium non datur.
Che i dati possano provenire, in forma certa, organizzata, attendibile e completa, dalle ASL è negato dalla evidenza, dichiarata e conclamata, che il tracciamento nella seconda fase in Italia non ha funzionato affatto altrimenti, come ha insegnato la Corea del Sud, non avremmo avuto i numeri attuali ed i focolai diffusi.
Non mi risulta, peraltro, che ci sia alcun canale comunicativo diretto ed informatizzato tra le ASL e le scuole in nessuna parte d’Italia.
A cosa servirebbe averlo? Per lo meno per far sapere alle scuole cosa e chi controllare al rientro in presenza. Peraltro siamo o no il Paese dove manco le banche dati organizzate ed istituzionali comunicano fra di loro?
Non vorrei dover evocare le discrepanze ben note a chi opera nelle scuole fra le banche dati previdenziali (ex INPDAP e poi INPS) per giustificare il pessimismo su dati condivisi o notificati alle scuole per permettere un controllo incisivo non basato su assurde autocertificazioni (vietate dalla stessa legge istitutiva) dei genitori sulla salute dei figli.
Ed ancora, se avessimo certezza dei dati sul contagio effettivo (intendo positivi sintomatici ma anche e soprattutto asintomatici) nelle scuole provenienti, in alternativa, dalle famiglie non leggeremmo, come è capitato di recente sull’Espresso, di scuole dove con quattro contagiati in una classe la stessa non veniva messa in quarantena se non dopo un periodo di tempo sufficiente a favorire ancora la diffusione del COVID.
E’ esperienza personale di docente in due classi in quarantena ben prima della chiusura delle scuole campane di non aver avuto alcun contatto dalla ASL manco per accertare, con un minimo di intervista, quanto potessi essere stato “contatto stretto” e questo solo sulla base della nota distanza fra la mia cattedra ed i miei studenti.
Come se poi, tanto per fare un esempio, gli studenti non avessero portato i foglietti di giustifica alla cattedra ma me li avessero lanciati a distanza a mo’ di aereoplanini di carta.
Passiamo alla ipotesi di dati raccolti a partire dalle segnalazioni anche spontanee delle famiglie. Ci sono casi descrivibili (per esperienza diretta e non raccontata) in questi termini: casi di contagio in famiglia, magari tamponi positivi anche di studenti e la scuola cosa ne sa?
Ben poco perché funziona un meccanismo che può partire da due dati anche questi facilmente verificabili.
Ci sono famiglie, in caso di contagio di un membro, non in grado di supplire autonomamente (con i tamponi effettuati privatamente) alle carenze delle ASL e ci sono famiglie dove ,invece, al dato certo del tampone positivo del figlio non segnalano la circostanza alla scuola con la motivazione: “a che pro, mio figlio è a casa e non può contagiare nessuno.”
Ma, all’eventuale rientro in presenza il 9 dicembre, cosa ci salverebbe dal possibile contagio?La sola assenza dello stato febbrile?
Ma se il positivo, pur senza febbre, non ha ancora raggiunto la negativizzazione e se la sua positività non è stata notificata alla scuola cosa succederà al suo rientro a dicembre?
Ed ancora: far rientrare gli studenti italiani a quindici giorni dalla chiusura natalizia, quando ci saranno altre due settimane di possibile “isolamento” sia pure auspicabile e volontario, non è un azzardo privo di senso?
In ultimo una ulteriore considerazione relativa alla DID/DAD in caso di ritorno in presenza: ma qualcuno considera che con classi eventualmente divise fra casa e scuola far operare i docenti con le strutture informatiche della scuola è un collo di bottiglia rispetto alla utilizzazione di postazioni casalinghe che sfruttano reti diverse e più performanti?
Franco Labella