Il ministero dell’Istruzione, nella nota del 4 marzo con la quale richiedeva che le scuole si attivassero per predisporre sportelli di supporto psicologico e linguistico nei confronti dei profughi ucraini, anticipava anche che a quella prima disposizione ne sarebbe seguita una seconda. Secondo fonti della Tecnica della Scuola, quella nota sarebbe in arrivo. Ed è quanto mai urgente, dato che i primi studenti in fuga dalla guerra sono già nelle nostre classi.
Ne abbiamo parlato nella diretta della Tecnica della Scuola del 15 marzo, cui hanno partecipato Raffaele Iosa, ex ispettore scolastico, esperto di processi di inclusione e Aluisi Tosolini, dirigente scolastico e coordinatore della rete nazionale delle scuole per la pace, in conversazione con il nostro vice direttore Reginaldo Palermo.
Come bisognerebbe relazionarsi in maniera pedagogicamente adeguata con questi alunni? Gli interrogativi sono numerosi. Primo fra tutti: quanti alunni è opportuno inserire in una stessa classe? O ancora: valgono le stesse regole che ci siamo dati sui migranti o questa comunità di profughi ha una sua specificità?
“Consideriamo che questi bambini e ragazzi sono di passaggio, questo stanno (giustissimamente) pensando loro. Sperano in un passaggio il più breve possibile perché prima di tutto vogliono tornare a casa, ai loro affetti, spesso rappresentati dal loro papà, rimasto in Ucraina a combattere”. Così Raffaele Iosa. Il pedagogista, peraltro, ci fa notare che qualcuno di questi bambini potrebbe restare orfano proprio mentre si trova sui nostri banchi di scuola, un dramma inimmaginabile. Ecco, davanti a queste situazioni la pedagogia deve essere particolarmente attenta. Ed è per questo che i docenti hanno bisogno di vere e proprie linee guida – ci spiegano i due esperti – da parte del ministero dell’Istruzione. Per non fare errori, per non creare squilibri su squilibri, dolore su dolore.
In riferimento al numero di alunni profughi per classe, lo stesso Iosa suggerisce: “Questi bambini vanno tenuti insieme e vanno fatti stare a scuola, a fare il loro mestiere di studente. Bisogna evitare che un bambino ucraino stia da solo in un’aula. Addirittura si potrebbero costituire delle classi ad hoc, non ne vedo il danno – afferma – il che non vuol dire che i ragazzi siano isolati”.
Aggiunge sul tema il dirigente Tosolini: “Potremmo anche pensare a delle classi aperte nelle quali i ragazzini ucraini possano stare insieme in certi momenti e poi venire divisi in altri momenti, magari per dei lavori di gruppo di tipo laboratoriale”.
E l’insegnante o i compagni cosa dovrebbero fare? “Stare in ascolto, un passo indietro. Un rapporto che Bruner chiamerebbe scaffolding – spiega Raffaele Iosa – che significa stare dietro a loro, rispettosi anche dei loro eventuali silenzi. Non è affatto un’accoglienza facile, ci vuole equilibrio e prudenza”.
In generale, spiegano i due ospiti della diretta online, il paradigma pedagogico da mettere in campo in queste situazioni dovrà essere quello della pedagogia attiva e della didattica attiva, con il corollario di una forte laboratorialità: un’occasione, per la scuola italiana, per rivedere il proprio modello di lavoro, quello trasmissivo, in questo contesto del tutto inappropriato.
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