Siamo proprio sicuri che lo Stato italiano sia realmente infastidito e impensierito dalle occupazioni studentesche delle scuole?
Ogni anno, tra novembre e dicembre, si ripete da decenni il rito dell’occupazione, ormai “tradizionale” al punto da apparire folcloristico e quasi normale. Pochi genitori ostacolano i figli in questo, che sembrano considerare un momento quasi iniziatico per i propri figli: tanto da guardarli con tenerezza, vezzeggiandoli — spesso e volentieri — fino a rifornirli di lasagne, pizze, coperte, ricariche telefoniche, pasticcini, tè caldo e comunicati di solidarietà. Lo dimostra un’inchiesta recente, secondo la quale più della metà degli studenti intervistati si dichiarano appoggiati e supportati concretamente nell’occupazione dai propri genitori.
Quali sono le motivazioni delle “okkupazioni” (così definite sui muri perimetrali delle scuole), che si contano a decine ogni autunno in tutta la Penisola? Le più tradizionali, e insieme le più varie (sempre puntualizzando, naturalmente, che l’occupazione non è contro i docenti), espresse in ottimo italiano e con capacità argomentative inconsuete (stranamente, vista l’impreparazione cronica dei più). Si va dalle critiche alla politica scolastica governativa (come quelle — legittime — sullo stato degli edifici, sulle classi pollaio, sulla scuola-azienda, sul PCTO obbligatorio, sulle spese militari che limitano gli investimenti sull’istruzione, sui finanziamenti alle scuole private) alle lamentele sulla didattica “tradizionalista e nozionistica” (che tale non è almeno da 50 anni), all’invocazione di “spazi didattici autogestiti”, al desiderio di “cultura più vicina ai bisogni dei giovani” (come “salute mentale”, “sessuo-affettività“, “politiche inclusive e pedagogicamente transfemministe” e violenza di genere), alla “proposta di scuola innovativa”, alla solidarietà con la Palestina.
Benché l’occupazione non sia mai “contro i docenti”, il messaggio implicito è: «Siamo stufi delle vostre lezioni, e vogliamo fare ben altro». Si legga, in proposito, il documento redatto dai docenti del Liceo “Copernico” di Bologna in risposta all’occupazione dello scorso autunno.
Ovviamente le occupazioni non sono un fenomeno solo italiano. Italiano è semmai, il loro ripetersi ogni autunno.
Quando finalmente l’occupazione termina, i danni sono ingenti; tranne poche, rarissime eccezioni. Di solito l’importo da sborsare per ripararli supera i 10.000 euro: pagarli, come sempre, è in realtà il contribuente.
Come reagisce lo Stato italiano? È realmente interessato al fenomeno? Non parrebbe: le occupazioni sono generalmente, da decenni, tollerate senza conseguenze per gli occupanti. Per fortuna, verrebbe da dire: in fondo gli occupanti sono quasi tutti minorenni non consapevoli delle proprie azioni. Tuttavia, quando questi minorenni alzano il tiro, cercando di farsi sentire nei sacri palazzi, il volto violento dello Stato non tarda a palesarsi: come lo scorso 22 dicembre, quando gli studenti medi romani hanno tentato il salto di qualità della loro protesta, ma sono stati caricati e manganellati dalla polizia davanti a Montecitorio.
Negli anni ‘70 la repressione scattava ben prima, violenta e quasi automatica, tanto che le occupazioni delle scuole duravano solitamente due o tre giorni, non 15 come oggi. Puniti dalla polizia, gli studenti se la vedevano poi coi genitori, non favorevoli alle occupazioni come molti genitori di oggi.
Il contesto odierno è molto diverso. Tanto che nel 2014 il sottosegretario all’istruzione Davide Faraone definì le occupazioni studentesche momenti “di grande partecipazione democratica”: «Anche in quei contesti si seleziona la classe dirigente» — dichiarò in un celebre intervento riportato da La Stampa — perché la Scuola «non può essere solo tempo trascorso sui banchi in attesa che la campanella suoni».
Oggi le rivendicazioni degli studenti contro nozionismo e lezione frontale ricordano molto le parole d’ordine delle “riforme” portate avanti per 30 anni da tutti i governi: “riforme” accomunate dai consueti tagli alla spesa scolastica e dai cambiamenti imposti (dall’alto) “senza ulteriori oneri per l’erario”; cambiamenti fondati sulla valutazione di “competenze” standardizzate, “misurabili” tramite test, percentuali, punteggi, per abituare i discenti ad un frainteso (e misurabile) concetto di “merito” da rivendere sul flessibile mercato di un sempre più precario mondo del lavoro.
Sarà forse per questa involontaria convergenza tra le richieste degli studenti e quelle dei governi neoliberisti, che dall’alto si guarda alle occupazioni con tanta benevolenza? Si approfitta forse del malessere studentesco per accelerare il processo di smantellamento della Scuola pubblica e dei princìpi su cui il suo esser pubblica si è sempre basato?
Ben altra durezza è riservata agli attivisti nonviolenti di Ultima Generazione e di Extinction Rebellion, molti dei quali insegnanti, studenti e ricercatori universitari. Nonviolenti, ma colpevoli di additare petrolieri, miliardari, multinazionali e governi come causa del surriscaldamento globale che sta mettendo a rischio l’immediato futuro di noi tutti. Per loro nessuno sconto, ma denunce civili e penali, percosse, prigione. Caso? fatalità? giustizia? O scelta politica (non sempre dovuta a limpida coerenza)?
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