Alla senatrice Laura Bignami (Gruppo Misto) abbiamo posto alcune domande su una sua recente iniziativa legislativa e, più in generale, sul tema dei processi di integrazione e inclusione.
Lei ha presentato di recente un disegno di legge per gli alunni con difficoltà di apprendimento. Non le pare che con il ddl 2294 e con quello che si richiama alla LIP ci sia già abbastanza carne al fuoco?
Non è così. Nella Buona scuola, fatta eccezione per un richiamo all’insegnamento di sostegno contenuto nell’articolo 21, non c’è nulla che punti a un’autentica integrazione scolastica dei ragazzi con disabilità. La stessa Lip, di cui sono firmataria, rimane su un livello generico. I 17 articoli del mio ddl, invece, cercano di focalizzare l’attenzione sui problemi pratici legati all’apprendimento dei disabili. Di qui, per esempio, la richiesta al Miur di linee guida per stimolare capacità quali attenzione, memoria e visuspazialità. Esercizi mirati senza i quali le probabilità di un apprendimento distorto sono elevatissime. Insomma, l’obiettivo è puntare a una legge organica che metta al centro, finalmente, le esigenze dell’alunno e che mi auguro sia incardinata nella discussione del ddl 2294 anche attraverso gli emendamenti già depositati alla Camera.
Può riassumerci in poche parole i criteri che ispirano la sua proposta?
Le esigenze e il benessere dei ragazzi con disabilità costituiscono il presupposto di partenza del ddl. Questi giovani speciali, infatti, devono essere i veri protagonisti del loro percorso di istruzione e formazione. Un altro criterio ispiratore, però, è la professionalità dei docenti che, insieme alla garanzia della continuità didattica, rappresenta il fulcro della mia proposta.
E le finalità?
Sono di ordine pratico. A cominciare dall’assunzione degli insegnanti di sostegno dal primo giorno di scuola e dalla loro professionalità. A guidare il percorso formativo di ragazzi con disabilità devono essere docenti qualificati o, in loro assenza, educatori professionali. A questa logica, per esempio, va ascritta anche l’introduzione del curriculum del docente che, accanto alle specializzazioni conseguite in base ai diversi deficit, contempla soprattutto le esperienze maturate sul campo. Si tratta di uno strumento di gratificazione per l’insegnante ma anche di grande trasparenza per i genitori.
Parliamo di un tema specifico: lei pensa che i processi di integrazione possano essere affidati soltanto ai docenti di sostegno?
Non lo penso affatto. Quello dell’integrazione è un processo bidirezionale. Un ragazzo con disabilità è un valore aggiunto per la classe e viceversa. Ma soprattutto, dietro questi giovani c’è l’intero team di insegnanti. E non solo quello di sostegno. Non a caso mi sarebbe piaciuto introdurre il termine ‘docente di collegamento’ perché è proprio questa la funzione che dovrebbe svolgere tra l’alunno e il mondo esterno, la classe e la stessa famiglia.
Per migliorare i processi di integrazione è sufficiente aumentare il numero dei docenti di sostegno e del personale che si occupa anche ad altro titolo dei disabili nella scuola?
Non basta. E’ prioritario che chi si dedica all’insegnamento di sostegno viva il proprio lavoro come una missione. Con professionalità, passione e abnegazione. Difficile oggi, soprattutto se i cinque anni di sostegno sono vissuti dai docenti solo come un passaporto per entrare in ruolo. Una dinamica inconcepibile. Ecco perché è giunto il momento di occuparsi seriamente degli alunni in difficoltà di apprendimento. Bisogna lavorare nei limiti delle potenzialità dei disabili e non, come spesso si è fatto fin’ora, operare nei limiti delle potenzialità dei docenti.
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