Un giorno entrando in laboratorio chiesi alla classe (appena 11 studenti) di non accendere alcun computer, lasciando alla penombra del sole battere ostinatamente sui finestroni, come a voler entrare con il diritto di chi ne ha la priorità, come se fosse cosa sua, quell’aula, quel luogo della tecnica e del mondo moderno che, pareva invece invitarlo a restare fuori, per il timore che la sua luce potesse oscurare il miracolo dell’assoluto scientifico.
Soltanto il computer della cattedra, e dietro ad esso uno schermo quasi grande come quello di un cinematografo: si proiettava la denuncia del rischio moderno di una possibile separazione irrimediabile della conoscenza (nel senso moderno di know-how, di competenza tecnica) dal pensiero, col rischio sempre vivo e presente di rendere noi esseri senza speranza, schiavi non tanto delle nostre macchine quanto delle stesse nostre competenze.
Tutto assunse una condizione come un afflato di mistero e di curiosità, ma gli studenti, conoscendo la follia del docente di laboratorio, avevano intuito che non sarebbe stata una lezione come le tante; ma quel luogo avrebbe offerto loro un qualcosa di radicalmente altro, assumendo una specie di sacrario su cui veniva poggiata una sconosciuta icona, tra incenso e spirituale. Nulla di così trascendentale! Forse il desiderio di spezzare il ritmo noioso, talvolta, che certe discipline rendono nel loro essere fonte di insegnamento e apprendimento, in quella che è poi l’arte bellissima e difficile dell’insegnare, intesa quale trasferimento di saperi, di conoscenze.
Forse il desiderio, o la follia, di inserire nel solito menù un piatto completamente nuovo e lontano dalla cucina di indirizzo, ove le erbe aromatiche e un po’ di fantasia fossero il sale il sapore, un nuovo gusto: “YouTube:/“Benigni: l’Amore e la Felicità”, e /:“La dichiarazione di amore di Roberto a Nicoletta Braschi a Venezia”.
Ne nacque una libera ed aperta sincera discussione tra tutti. E financo il collega e amico professore di teoria si lasciò andare, permettendo oltremodo una lezione che non aveva previsto, ma che, conoscendo il suo Itp, è possibile.
Oggi leggo sui giornali di indirizzo scolastico, siti e non soltanto, quanto esercizio faticoso la ragione tenta di produrre per risolvere nel termine di Offerta Formativa, e quanto si muove attorno ad essa.
Un processo che sia un programma che si propone, nella sua buona intenzione, essere risposta al nuovo che avanza, in una globalizzazione che dà evidenti segni di disgregazione.
E che invero forse, e sottolineo forse, per non correre in presunzione, molto si allontana dalla realtà che non chiede enormi cambiamenti, nuovi accenti fatti di paroloni, ma semplicemente il consenso a continuare come da sempre in quel umile semplice amorevole emozionante stendere le mani perché incontri altre mani, e assieme come in un cerchio, formare un grande girotondo di colori che sono poi ciò che ognuno rappresenta: le emozioni, i sentimenti, la curiosità, la meraviglia, il sorriso, il timore, il dubbio, la certezza, la rassicurazione, la conoscenza, l’amore amante della Vita, cioè la assoluta mai arresa, ma sempre quella determinazione a volare oltre, ancora e ancora, e scrivere la personale avventura umana che nel tempo della adolescenza e della giovinezza si gioca tutto il suo scriversi, il suo stesso racconto, la sua stessa storia.
Per giungere a sera consapevoli che la fatica, l’impegno, il tutto, si ritrovi raccolto in quelle mani racchiuse in conchiglie ove custoditi sono i volti dell’ultimo saluto: quelli dei nostri compagni di scuola, di classe, dei nostri insegnanti, del tempo della VITA: “il luogo della Scuola non è solo quello istituzionale dove si ricicla il sapere, ma è anche luogo e potere dell’incontro che trasporta, muove, anima, risveglia il desiderio. È il mondo ove si apre superandosi e superando quel processo ripetitivo della lezione, la quale ha come unica condizione il mondo chiuso dell’istituzione, e per cui solo (e grazie) alla sottomissione al dispositivo della relazione maestro-allievo si genera la possibilità dell’altrove. È solo l’esperienza del chiuso che sospinge verso la necessità dell’apertura” (Recalcati).
Per questo l’iniziativa a spezzare la monotonia del laboratorio, per consentire un respiro altro che non annulla la validità del numero, ma consegna la realtà dell’essere, in quel rischio di essere completamente assuefatti, immersi come in tutt’uno, in una visione scientifica moderna del mondo (unitamente a quella economica), rischiando di non prestarsi più alla espressione normale del discorso e del pensiero (parafrasando H. Arendth).
Questo credo debba essere la vera Riforma della Scuola. Non è un’UTOPIA, perché L’Uomo non è un’utopia. Sempre in cammino, e a tal motivo sempre “nuovo” per via del percorso evolutivo: “il mondo dell’uomo, nasce da capacità umane che sono generate dalla condizione umana e non sono permanenti, che cioè non possono andare irreparabilmente perdute finché la stessa condizione umana non sia cambiata” (H. Arendth). Altrimenti non si parlerebbe più dell’Uomo, ma di qualcosa di radicalmente altro. Forse, di Nulla.
E per tutto questo non è necessaria una Riforma che nasce per una formazione ad divenire docenti, perché la docenza è come la vita: un atto volontario di esperienza in cammino, sul cammino, della conoscenza e dell’adempimento.
Mario Santoro
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