È mattina e ho sentito l’urgenza di scrivervi. Mi chiamo Chiara, ho 21 anni e sono studente in Mediazione linguistica interculturale a Forlì.
Ma non è di questo che voglio parlare oggi. Voglio parlarvi di una grande gabbia da cui sono uscita da qualche anno; una gabbia della cui pericolosità e inutilità mi sono accorta solo alla fine.
La scuola.
Lungi da me denunciare, per così dire, I miei insegnanti o il mio liceo, non sono loro il problema. Se fosse solo questo il problema le mie parole non avrebbero ragion d’essere.
Voglio gridare a gran voce di come mi sia sentita in prigione e di come la mia sia stata una sofferenza sorda e poi troppo potente da sopportare.
Potente al punto da farmi quasi abbandonare la scuola in quinta superiore. Sono stata convinta da uno psicologo, da mia madre e da un’insegnante a non farlo. Abbandonare non sarebbe stato rilevante ormai. Ritirarmi ad un passo dalla maturità non avrebbe cancellato quel senso di nausea e di apatia a cui sembravo condannata. Ma perché mollare la scuola senza motivo, mi hanno detto.
I motivi ci sono, non sono visibili ai più però. Solo in rari momenti sentivo riconosciute le mie capacità e il mio approccio allo studio, raramente riuscivo a esprimermi, a far valere le mie potenzialità che non si traducevano necessariamente con il bel voto. L’intelligenza non è quantizzabile. Sono stata compresa da qualche docente, sì, e devo loro tanto. Il prezzo da pagare è stato alto. Ho dovuto lottare e sfidare per scrivere un testo su Nietzsche che mi rispecchiasse, in cui non mi sentissi annoiata e bloccata.
Scrivevo in maniera contorta e durante le interrogazioni mi mancavano le parole; eppure, intuivo e anticipavo quasi tutto quello che veniva insegnato. Avevo voti bassi in matematica; eppure, è una materia per cui ho scoperto di essere portata.
Se ora ho capito queste cose è perché ho incrociato adulti-pochi- che hanno saputo andare oltre un sistema omologante, un sistema in cui l’intelligenza è una, un sistema in cui gli “eretici” sono ripudiati e castigati. Un sistema, infine, in cui chi ha troppo fa paura, in cui chi ha troppo viene allontanato e condotto ad un profondo senso di inadeguatezza.
Non voglio che le mie parole risultino un tentativo di autocommiserazione o autocelebrazione. So già che c’è chi la penserà così. C’è chi mi reputerà arrogante. Sia. Sono rischi che bisogna correre. E confondere la consapevolezza con l’arroganza è, ahimè, abbastanza comune.
Mi fermo qui, per ora, anche se so di non aver scritto quasi nulla.
Chiara Anastasi
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