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Una felicissima Madama Butterfly al Bellini di Catania, con una orchestra grandiosa

CobasCobas

Una esecuzione impeccabile la “Madama Butterfly” di Giacomo Puccini, dal libretto di Illica e Giacosa, al Teatro Massimo Bellini di Catania, con una Myrto Papatanasiu straordinaria, magnifica, perfetta, sublime soprano nella parte di Cio-Cio-San, la geisha giapponese che si innamora di F.B. Pinkerton, recitato da un altrettanto bravissimo tenore Carlo Ventre. 

Regia appassionata, visionaria degna di quel “teatro sacro”, descritto da Peter Brook, dove nulla è apparso fuori posto, anzi, dove l’invisibile è stato reso visibile, riuscendo ad andare alla ricerca di una messa in scena in cui l’evento stesso e le sue sensazioni hanno in qualche modo sostituito il testo, bellissimo del resto.

Lino Privitera, regista forse di quella scuola in cui appare in qualche modo lo stesso Antonin Artaud, con magica intuizione e attento studio di una cultura millenaria, seppure attinta da quella cinese, ha ripreso i miti classici dell’epopea giapponese e li ha portati in scena, facendo già intuire, mentre le struggenti note di Puccini accompagnavano l’animo alla sua scoperta, l’imminente accadimento.

E cosi le foreste di bambù, sempre presenti ai lati della scena, ascesi alla ribalta della notorietà in certi film, si chiudevano del tutto a segnalare la distanza, e dunque la cesura,  non solo fra due civiltà, quella americana da quella dove la rappresentazione si sta svolgendo, ma anche fra due concezioni dell’amore: quello robusto e coraggioso di Butterfly e l’altro superficiale e mercenario dell’americano in cerca di avventure. 

In ogni caso è bastato un albero di cedro, ma poteva anche essere un ginko biloba, quello amato da Goethe, o un daisugi a immergere lo spettatore nel clima di quel così lontano e misterioso paese, mentre con acuta intuizione il regista ha portato la primitività orientale, le divinità giapponesi della tradizione buddista, nelle forme, e dunque nelle plastiche movenze del balletto del teatro catenese, dei Kami,  vere e proprie divinità della mitologia. 

Loro appaiono, loro portano scompiglio nel cuore e proprio nei momenti più decisivi del dramma: quando Cio-Cio-San rinnega la sua religione per sposare l’americano e quando invece, alla fine ormai ultima del dramma, la donna, che aveva acquistato con gioia il nuovo nome americanizzato di Butterfly (infatti Chōchō significa farfalla e san Madama e dunque in inglese Madama Butterfly), ritorna alla vecchia usanza e alla religione degli avi. 

Dunque, una felicissima intuizione, insieme a quell’altra della foresta di bambù che diventa impenetrabile per il vigliacco Pinkerton, come a volerlo esclude da quel delicato e sensibile mondo.

Una scala a due rampe, nel fondo della scena, ha richiamato altre ascese al cielo e altri profeti biblici, benché da essa scendessero e salissero per lo più divinità arcane e asessuate, i cori potenti e teneri, come per annunciare che da quel versante e lungo  quei gradini solo il mistico ha possibilità di stabilire il destino dell’umanità e dunque di togliere e donare come nella danza dei dervisci. 

Appassionatamente potente, quando occorreva, gioiosamente dolce, quando gli accadimenti belli sbocciavano (come le felici arie di Puccini e la ben nota “Un bel dì vedremo, così vicine alla sensibilità moderna) e dolorosamente struggente, soprattutto nel tragico finale, la meravigliosa orchestra del Teatro Massimo Bellini diretta da Alessandro D’Agostini. Così come il coro di Luigi Pietrozzello.

E gli applausi non sono mancati: sentiti, calorosi a tutta la compagnia della seconda serata, fra cui è d’uopo ricordare la vecchia Suzuki, la fidata ancella di Butterfly, nella persona di Anna Pennisi che si è mossa con levità suggestiva del suo personaggio. 

Ma ancora applausi e applausi alla meravigliosa Papatanasiu  che per tre ore ci ha tenuti incollati coi suoi assoli alla poltrona, sulle onde di una voce straordinaria e di una presenza scenica ammirevole.

Pasquale Almirante

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