Allora. Va premesso innanzitutto che insegno una di quelle materie “tappabuchi”.
Due ore per classe, giusto per introdurre una variabile in più ai valorosi programmatori dell’orario. Attività differenziate per fasce d’età, materiali diversi da portare a seconda dell’attività, verifiche da programmare e possibilmente procedure semplificate per i numerosi casi di BES, DSA, alunni iperattivi e problematiche familiari, così da traghettarli dignitosamente attraverso il percorso scolastico.
Il tutto senza avere molte occasioni di confronto con le famiglie, considerati i circa 200 alunni da monitorare ed eventualmente attenzionare. Ciò nonostante, spesso chi insegna le materie “tappabuchi” (nelle scuole medie le cosiddette educazioni) è convinto della centralità didattica della propria disciplina e si impegna fino allo stremo per incidere in qualche modo, attraverso strategie innovative, performances attoriali, plateali richiami ad un’educazione che ormai si può soltanto immaginare. In queste condizioni, il senso di fallimento e la frustrazione per l’inadeguatezza del proprio operato vanno moltiplicate per quasi 200, con in più la consapevolezza di avere poco tempo per recuperare o innescare qualsivoglia meccanismo virtuoso nelle dinamiche di apprendimento.
Allora. Entro in classe alla prima ora, consapevole di aver trascurato tante cose pur di arrivare puntuale, districandomi tra traffico urbano ed autostrada. Ma per oggi ce l’ho fatta. Ore 8 spaccate. Entro carica delle migliori intenzioni, pronta a quei 5 minuti di chiacchiere amichevoli per stabilire un minimo di empatia con la classe. Fino alle 8.10 buona parte della classe è ancora nei corridoi.
Solo dopo ripetute sollecitazioni e minacce di segnare l’assenza, il branco si appropria rumorosamente dell’aula. Altri 10 minuti buoni per ristabilire una parvenza di ordine e, in chiusura, per ottenere che ognuno depositi il cellulare nel cassetto della cattedra. Finalmente, verso le 8.30, sono più o meno tutti seduti. Ancora un ultimo sforzo, per spostare gli alunni che, imperterriti, provano a derogare alla disposizione dei posti studiata per minimizzare le distrazioni e le chiacchiere, anche quest’azione condita da innumerevoli polemiche, schermaglie di minacce, simulazioni di note. Manca meno di mezz’ora, forse possiamo finalmente incominciare.
Ce la posso ancora fare. Ho imparato, nella mia ormai non breve esperienza d’insegnamento alle scuole medie, a semplificare i programmi, a predigerire e schematizzare concetti e periodi storici, a renderli più comprensibili con esempi tratti dal quotidiano, con disegni e mappe realizzate a tempo di record, adeguandomi ad una scuola che ha sempre meno tempo per la didattica tradizionale, schiacciata in mezzo a millemila eventi, progetti, attività extra.
So che, se riusciamo ad entrare nell’argomento di oggi, sarà facile catturare la loro attenzione, per averlo sperimentato in altre classi. Non avevo calcolato, però, il passaggio davanti alla finestra delle altre classi per l’uscita a teatro. Anche quest’evento, nei limiti della normalità, si trasforma in una nuova occasione di distrazione: alunni che si alzano per andarli a salutare dalla finestra, alunni che approfittano di quest’opportunità per provare a cambiarsi di posto. Ormai esasperata, provo comunque a farli risistemare per poter quantomeno introdurre l’argomento, ricollegandolo a quello svolto la settimana prima.
Solo due o tre alunni mostrano di ricordarne qualcosa, tutti gli altri riprendono imperterriti il loro chiacchiericcio da un banco all’altro. In queste condizioni, anche illustrare un semplice concetto diventa un’altalena esasperante, punteggiata di sfuriate, minacce, richiami individuali all’attenzione ai più sfacciati. I tempi dell’attenzione si allentano anche per i più volenterosi, e la possibilità di raggiungere un obiettivo per quanto semplificato si allontana ogni minuto di più.
Sfido i fautori di ogni didattica innovativa a raggiungere un qualsiasi risultato, partendo da queste premesse. Morale: un’ora persa, per me e per loro, 4 note individuali ed una segnalazione collettiva sul registro, che sono consapevole servirà poco a smuovere questo stato di cose. Aspetto, a questo punto, rassegnata, il cambio del collega, cercando di mantenere i ragazzi nell’ordine purtroppo poco partecipativo che ho raggiunto a costo di un’ennesima sfuriata. Per 10 minuti buoni non si fa vivo nessuno, tantomeno i collaboratori che reputano indegno del proprio ruolo collaborare a che il cambio dei professori si svolga in maniera sicura e indolore. Finalmente, mi avvio verso la sala professori dove scopro che la collega è assente e nessuno ha provveduto alla sostituzione, lascio il problema nelle mani di un collega responsabile e mi avvio verso la classe della seconda ora.
Qui era programmata un’attività pratica. Metà della classe è sprovvista di tutti o alcuni materiali richiesti, e continua a chiedere di andare nelle altre classi a rifornirsi; dell’altra metà qualcuno ha iniziato il lavoro nella lezione precedente e procede autonomamente verso la fine. C’è poi chi ha perso il lavoro intrapreso, per cui va aiutato a ricominciare daccapo, c’è chi chiede supporto anche nelle attività più semplici e va affiancato da un tutor, chi approfitta della creazione di questi gruppi improvvisati per defilarsi ed incominciare a chiacchierare.
Non è facile, durante queste attività laboratoriali, avere la visione d’insieme della classe, poiché a volte troppo concentrati nel supportare individualmente l’alunno più in difficoltà o nel suggerire sviluppi innovativi per valorizzare l’operato dei più dotati. In questo caso, la collaborazione di un collega di sostegno, come avviene in questa classe, si rivela preziosa. Nonostante numerose disavventure nel prosieguo dell’attività operativa, ed un livello di decibel tale da mettere a dura prova il mio udito, riesco ad arrivare indenne alla fine dell’ora.
Nel frattempo due alunne di un’altra classe mi avevano chiesto, col consenso della collega con cui facevano lezione, di iniziare il lavoro spostandosi nella mia classe. Ho accettato, immaginando che, avendo lezione nella loro classe nel corso della terza ora, avrei potuto avvalermi del loro contributo, solitamente alquanto chiassoso e poco operativo, come tutor per gli altri compagni. Le alunne, affiancate da altre compagne abbastanza operative, portano a buon punto il lavoro impostato, nella prospettiva di concluderlo nella propria classe.
Mi sposto così insieme a loro nella classe della terza ora. Qui, a seguito di un’uscita programmata in altre classi, trovo alcuni alunni delle terze che, non avendo partecipato all’uscita, sono stati smistati altrove. Comprendo presto che solo due o tre alunni hanno portato i materiali richiesti per impostare l’attività programmata, per cui provvedo a reorientare subito la lezione verso un argomento che possa coinvolgere anche gli alunni di terza. Anche in questo caso, però, non è facile riportare all’ordine la classe, destabilizzata dalle nuove presenze e più orientata verso la modalità chiacchiericcio. Dopo una serie di aggiustamenti, si arriva ad un ragionevole compromesso:
Nel frattempo, un’alunna già precedentemente incorsa in attacchi di panico, segnala di essere disturbata dal rumore presente nell’aula, e particolarmente dall’atteggiamento di una compagna particolarmente chiassosa e manesca. In sincrono col suono della campanella, l’alunna dà segno di accasciarsi, prontamente sostenuta da due compagne. Dopo cinque minuti, del collega incaricato di sostituirmi, ancora nessuna traccia. L’uscita programmata ha determinato diverse assenze tra i docenti accompagnatori, senza però un rimpiazzo nelle classi.
Portiamo l’alunna fuori dalla classe, provvediamo ad avvisare la famiglia, con altri colleghi presenti cerco di rassicurarla e sdrammatizzare la situazione. Torno nella classe, che trovo ancora scoperta, provvedo ad avvisare i colleghi in servizio e finalmente mi dirigo verso l’uscita. Ore 11.25.
Sono “solo” 3 ore, poi diventate 3 ore e mezza di lavoro, ma in termini di usura fisica e mentale sono tanto di più. Flipped classroom, peer education, classi aperte, lavoro di gruppo, attività differenziate. In queste tre ore ci sono tutte queste strategie, tanta elasticità mentale e tanto lavoro di preparazione preliminare, ma c’è soprattutto la frustrazione di un docente che vede, giorno dopo giorno, la propria professionalità diventare inutile e improduttiva alla mercè di una scuola vetrina, di adolescenti sempre più narcisisti ed autoreferenziali, di famiglie che non vogliono, o non sanno, vedere per intervenire. Immagino che, come me, siano tanti i docenti che, riconoscendo di non essere perfetti, chiederebbero soltanto una mano di aiuto, per consentire di non vanificare il lavoro preparato e programmato, e portato avanti in classe con passione e dedizione. Aiuto che, però, difficilmente viene, dai colleghi, dai dirigenti, dalle famiglie stesse.
Ecco, questo è un giorno di ordinario lavoro a scuola. Se poi si tratti di burnout, a voi deciderlo.
Francesca A.
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