Il 10 Settembre Liliana Segre, senatrice a vita, ha detto in Senato: “L’uso dei simboli religiosi ricorda il motto “Gott mit uns” (Dio è con noi)
“Gott mit uns” era il motto dell’Ordine Teutonico; dopo la caduta dello Stato dei cavalieri teutonici, divenne quello dei re di Prussia, fino a divenire motto degli Imperatori tedeschi. La Repubblica di Weimar mantenne il motto sulle fibbie dei cinturoni militari e al centro viene inserita l’aquila, simbolo della Germania. Con l’avvento del Nazismo (1933), la fibbia rimase inalterata fino al 1936, quando, al posto dell’aquila di Weimar, venne inserita un’aquila in posizione di riposo, che ha negli artigli una svastica e la scritta rimase” (ndr).
Perché Liliana Segre ha richiamato questo brutto ricordo durante il discorso in Senato, dove annunciava la sua fiducia al governo Conte due? Semplicemente perché sono anni che lei combatte quelli che vengono chiamati “haters” cioè “istigatori di odio” che infestano la Rete e, sicuramente, Dio non è con loro.
Liliana Segre ha conosciuto l’odio da bambina, ha visto con i suoi occhi gli effetti dell’odio sulle persone inermi, ha visto morire bambini come lei e donne come sua madre (morta quando lei era piccola) e uomini come suo padre, tutti senza nessuna colpa, nessun processo, nessun appello, nessun difensore.
A soli 8 anni fu cacciata dalla sua Scuola perché era ebrea e perchè erano entrate in vigore le “leggi razziali fascistissime” (Leggi emanate da Mussolini tra il 1925 e il 1926, che incominciarono la trasformazione di fatto dell’ordinamento giuridico del Regno d’Italia nel regime fascista) .
Da quel momento la vita della sua famiglia cambiò. “Soldati aiutati da questori e prefetti italiani, che avevano consegnato loro gli elenchi precisi con gli indirizzi, già da tempo stilati dai fascisti: avevano organizzato la caccia all’uomo in modo che la ricerca degli occupanti nazisti fosse assolutamente semplificata. Il terrore, la disperazione, la paura, l’incapacità assoluta di renderci conto fino in fondo delle misure da prendere. L’organizzazione mentale di una soluzione creava ancor più confusione nel nostro cuore e nella nostra mente. Eravamo inadatti ad affrontare quel rastrellamento. Fu mio papà a decidere, unico uomo della famiglia, aveva allora 43 anni, dovette assumersi la responsabilità di mandarmi via da casa. ” (Tratto da Memoranda. Strumenti per la giornata della memoria, a cura di D. Novara, edizioni la meridiana, Molfetta, 2003. Titolo originale: “Matricola 75190 di Auschwitz”)
Suo padre trovò dei documenti falsi e fuggirono ma non riuscirono ad entrare in Svizzera, gli elvetici, anche se pacifisti e neutrali, non li fecero entrare.
A 13 anni la piccola Liliana, con l’accusa di essere ebrea, passò dal carcere di Varese a quello di Como e si riunì al padre solo quando arrivò a San Vittore a Milano. La sua storia è piena di lacrime di paura per le grida dei torturati, per i volti lugubri e sfiniti che aveva attorno, per le divise della Gestapo, per la sofferenza che viveva.
Ma il peggio doveva ancora arrivare e lei e suo padre furono deportati ad Auschwitz. Il viaggio nel vagone chiuso col piombo, i bambini e le donne che piangevano, gli uomini con gli occhi pieni di sgomento, la fame e la sete, resero quel viaggio indimenticabile. Senza nessuna libertà le persone gemevano e si lamentavano, mentre la paura diventava terrore.
Ma, ancora una volta, il peggio doveva ancora arrivare e il treno si fermò ad Auschwitz.
Liliana racconta: -Era una città: era una città del dolore, una città di 60.000 donne che entravano e uscivano tra quelle che andavano a morte e le nuove arrivate. Trentuno ragazze, italiane – non conoscevo nessuna di loro e solo la lingua ci univa in quel momento – entrai con loro e vidi quella serie infinita di baracche, la neve grigia, in fondo una ciminiera che sputava fuoco, intorno il triplo filo spinato elettrificato… E poi le sentinelle, e donne, donne scheletrite, testa rasata, vestite a righe, picchiate, in ginocchio, portavano pesi… «Ma dove siamo entrate?». Era una scena apocalittica e lei aveva solo tredici anni.
Oggi Liliana Segre è una donna che ha compiuto 89 anni e ha ancora sul braccio il numero che le fu tatuato da quei soldati pieni di odio razzista.
Le sue parole fanno male al cuore ma bisogna che siano lette e diffuse:
“Entrammo nella prima baracca, dove ci fu tolto tutto! Fummo spogliate, nude. Come si può sentire una donna, improvvisamente nuda, dinanzi a soldati che passano, guardano sghignazzano con l’estremo disprezzo della razza padrona.
Uomini armati, vestiti di tutto punto e quelle ragazze nude che cercavano inutilmente di coprirsi con pudore: era quella la maggiore persecuzione. E poi sempre davanti ai soldati venimmo rapate a zero, ci vennero rasati il pube e le ascelle, e poi, con estremo sfregio e spregio, ci fu tatuato il numero sul braccio sinistro. Lo porto con grande onore il mio numero, il 75190 di Auschwitz. In questo i nazisti sono riusciti perfettamente. Chi è tornato per raccontare, è rimasto essenzialmente il numero di Auschwitz. Volevano sostituire con un numero l’identità di milioni di uomini e donne e una volta morti, non sarebbero state più persone, ma numeri: il niente a raccontare di loro. E chi è tornato è rimasto essenzialmente quel numero. Io lo ripeto sempre ai miei figli: sulla mia tomba, se sarò una delle poche persone della mia famiglia ad avere una tomba, voglio che ci sia scritto prima di tutto il mio numero”.
Una parte del suo discorso al Senato, il 10 Settembre 2019, sembrava diretto quasi soltanto a Matteo Salvini: «Ho vissuto sulla mia pelle l’intolleranza e l’odio e so la facilità di passare dalle parole ai fatti. Mi hanno insegnato che chi salva una vita salva il mondo intero; per questo un mondo in cui chi salva vite viene osteggiato mi pare proprio un mondo rovesciato».
Abbiamo la fortuna di avere ancora tra di noi una donna così grande, così coraggiosa, così speciale, una donna che è sopravvissuta all’orrore più grande che il mondo abbia inflitto a milioni e milioni di persone.
Non lasciamoci sfuggire la sua saggezza, il suo coraggio, la sua forza di vivere, la sua grande capacità di misurare se stessa e gli altri e, soprattutto, la sua grande fiducia in un mondo migliore, perché chi ha visto il peggio del peggio, di sicuro cerca e desidera il meglio per tutto il popolo italiano.
Sarei felice di vedere Liliana Segre alla Presidenza della Repubblica Italiana, perché è una grande donna e perché il suo nome e la sua storia potrebbero dare nuovo lustro all’Italia.
Carmela Blandini
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