La sociologa Chiara Saraceno si è recentemente espressa con toni negativi a proposito delle decisioni del governo che riguardano bambini e ragazzi in età scolare: non basta il congedo parentale o il bonus baby sitter, afferma Saraceno, bisogna offrire ai più giovani quella dimensione di socialità, di gioco, di apprendimento che è propria della loro età.
La sua proposta: “Occorre pensare a organizzare, per i mesi da qui alla ripresa di settembre, e in preparazione di quella, attività per piccoli gruppi, utilizzando una molteplicità di spazi – alcune aule e cortili delle scuole e dei nidi, palestre, parchi attrezzati, oratori , case di quartiere, ludoteche – ove piccoli gruppi possano incontrarsi in sicurezza insieme ad educatori: una sorta di “estate ragazzi” diffusa, fatta di micromunità circoscritte e monitorate. Anche per i più piccoli, che è vero che non possono mettere le mascherine, gattonano e si mettono tutto in bocca, ma sembra assodato che non si infettano tra loro. Se in Francia, Spagna, Danimarca, Germania, si stanno attrezzando in questo senso, perché non in Italia?”.
Le parole di Saraceno indicano una via d’uscita dalla situazione emergenziale ben diversa dalla laudatio quotidiana della ministra Azzolina rispetto alla Didattica a distanza. Ed è vero che bisogna fare di necessità virtù e, in mancanza di altro, usare ciò che la tecnologia mette a disposizione per supplire all’impossibilità di uscire di casa ed andare a scuola; ma è ancor più vero che non vedere i limiti gravissimi di questa situazione è da idioti.
Un fenomeno interessante, emerso da scambi di idee con numerosi colleghi che praticano quotidianamente la Didattica a distanza è l’adeguamento della stessa alle modalità con cui funziona (o non funziona) la scuola “normale”.
Quindi, seguono meglio le lezioni a distanza i più motivati: i piccoli perché incuriositi dalla situazione insolita (che la scuola, poi, in pochi anni di frequenza ammazzi ogni curiosità è un dato da affrontare in altra sede), gli studenti delle scuole serali perché più adulti e determinati, gli studenti liceali perché, in genere, più abituati allo studio e più motivati.
Le notizie “interessanti” giungono, come al solito, dal segmento tecnico-professionale, proprio quello che dovrebbe stare più a cuore a chi governa in nome della Costituzione; la quale, con parole molto chiare, stabilisce il diritto all’istruzione e, conseguentemente, il valore della stessa in quanto momento di emancipazione. Insomma, i colleghi riferiscono di numerosi studenti collegati a videocamera e microfono spento e palesemente lontani dal computer (a domanda, chiamato in causa, l’allievo non risponde…); affermano che parecchi arrivano in ritardo alla lezione, tanto da costringerli a mettere a punto nuove regole per l’accesso all’aula virtuale.
Raccontano di reazioni negative a compiti che non ottengono i giudizi sperati, interventi di genitori presso il coordinatore per lamentare l’eccessiva (e presunta) severità di un giudizio. Insomma, tutto il meglio della “scuola dal vivo” si trasferisce, in breve tempo, nella scuola a distanza. Ciò serve a far emergere una verità lampante, ma che comporta, per essere compresa, di una conoscenza diretta della scuola: non basta cambiare mezzo o “metodologia didattica” per ottenere migliori risultati.
Quello che deve cambiare radicalmente è il rapporto tra chi impara e chi insegna. L’aula, con la “classe” (sia pure, come vuole la moda didattica del momento “rovesciata”) non funziona.
In un momento in cui gli adulti stanno perdendo autorità nei confronti dei più giovani (e la perdono, in genere, a vantaggio dell’invasività dei media digitali) è urgente recuperare il dialogo educativo.
La malattia della scuola è ad uno stadio avanzato e non è un fatto italiano. Ci hanno frastornato per decenni con sperimentazioni, metodologie didattiche, invenzioni dell’ultimo didatta ministeriale. Nessuno si è mai occupato dell’unico problema vero, dell’apertura di un canale di comunicazione tra insegnanti e studenti, affinché gli uni udissero le parole degli altri, in un rapporto di reciprocità, base indispensabile affinché il più giovane riconosca l’autorevolezza del più adulto e si confronti con essa.
Ora – e torniamo alla proposta di Saraceno, radicalizzandola – il dialogo ha bisogno di tempo, di fiducia reciproca e di circolarità. Queste condizioni possono essere garantite soltanto da una didattica per piccoli gruppi, la sola che consenta di superare il rumore di fondo (metaforico e spesso anche reale) di un’aula affollata.
Lavorare per piccoli gruppi può essere una soluzione per il rientro nelle aule. Certo, bisogna ripensare la struttura della mattinata di lezione. Ma non è legge di natura che a scuola si debba stare sei ore seduti su una sedia, in un’aula piena zeppa, con un adulto che, come i medici in corsia, può contare soltanto su se stesso per convincere i suoi studenti che quello che sta dicendo è più interessante dell’ultimo Whatsapp appena arrivato sul loro smartphone.
Giovanna Lo Presti
Portavoce Cub scuola
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