Tutto sta in due cartoncini colorati di rosso e verde. Potrebbero essere anche gialli e blu. Comunque sia, sono sufficienti per consentire a un ragazzo con disabilità intellettiva di trovarsi con degli amici in piazza ogni martedì, in un paese che non è la sua città. È il caso di Lorenzo, che non rinuncia a una vita sociale autonoma, ed è l’esempio di Roberta Passoni, educatrice e mamma di Lorenzo, che in occasione dell’avvio del nuovo anno scolastico riflette, insieme a Dario Ianes, docente di Pedagogia Speciale e co-fondatore del Centro Studi Erickson, sul ruolo degli educatori all’interno della scuola inclusiva.
«Il pedagogista francese Philippe Meirieu invita noi educatori a porre attenzione perché il nominare non diventi reificare», riflette Roberta Passoni. «Reificare vuol dire rendere concreto ciò che non lo è. Noi educatori spesso cadiamo nell’errore della reificazione: facciamo indossare ai nostri alunni un abito e pensiamo che quello sia il loro destino».
Questa estate, partendo dalla lettera di un genitore che denunciava ancora oggi l’esistenza di classi di serie A e serie B nella scuola del figlio, è nato un dibattito – che ha visto anche l’intervento del Ministro dell’Istruzione Valeria Fedeli in risposta alla lettera del maestro e fondatore della casa-laboratorio di Cenci Franco Lorenzoni – sul senso del termine “inclusivo” nella scuola odierna. Interessante osservare come il tema dell’inclusione nella scuola nasca sempre (o quasi) dallo spunto di una lettera – ossia un racconto indirizzato, dedicato, una scrittura che richiede una risposta – a partire dal famoso libro-manifesto Lettera a una Professoressa scritto 50 anni fa dai ragazzi della Scuola di Barbiana fondata da Don Lorenzo Milani che ha, di fatto, creato il concetto – incorporandone anche la realtà – di scuola inclusiva.
Stimolato da questa lettera e dal dibattito che ne è sorto, Dario Ianes ha lanciato un sondaggio coinvolgendo il gruppo Facebook Didattica Inclusiva. Si chiedeva se, nell’esperienza vissuta a scuola, era stata riscontrata la presenza di classi di serie A e serie B – cosa palesemente anti inclusiva, come lo sono i gruppi di livello, le scuole “ghetto” e via dicendo. Hanno risposto 645 insegnanti: di questi, il 69,5% afferma di aver avuto esperienza di classi di serie A e B, mentre il 30,5% non ha mai avuto questa percezione.
Riflette Ianes: «Certamente un campione molto piccolo e non rappresentativo, ma con una percezione largamente preoccupante per una scuola che vuole dirsi inclusiva. Scorrendo i vari commenti, si trovano situazioni assolutamente oltre il limite: una classe con 20 alunni cinesi e 4 italiani e nelle altre solo italiani, oppure una classe di 11 alunni con 2 alunni con disabilità, 3 con BES, 3 con disagi familiari e uno con gravi problemi di salute, un’altra classe con9 alunni con BES…».Alcuni commenti parlano di classi ghetto, differenziali, di “alunni scelti”. Risulta invece chiaro da altri commenti che il processo di formazione delle classi avviene correttamente, curando sistematicamente la costruzione di gruppi eterogenei, senza subire alcuna pressione o distorsione da parte dei genitori.
Una scuola inclusiva, che vuole conoscere, ricercare e valorizzare tutte le differenze degli alunni, dovrebbe fare dell’eterogeneità a tutti i livelli la norma nella composizione dei gruppi. Al contrario, classi o gruppi di serie A e B stabilizzeranno ancora di più le disuguaglianze e bloccheranno, nel bene e nel male, i destini degli alunni.
Di questi temi si parlerà al Convegno Erickson “La Qualità dell’inclusione scolastica e sociale” in programma al Palacongressi di Rimini il 3, 4 e 5 novembre 2017 e al quale Dario Ianes, Roberta Passoni e Franco Lorenzoni saranno tra i relatori.
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