A quasi settecento anni dalla morte del Sommo Poeta e in occasione del Dantedì, istituito dal Consiglio dei ministri per il 25 marzo (data riconosciuta dai più come l’inizio del viaggio nell’oltretomba descritto nella Commedia), siamo invitati tutti, docenti e studenti, a leggere passi del poema, nell’ambito della didattica a distanza.
Prima che del poeta, parlerei innanzitutto dell’uomo Dante per sfatare l’immagine un po’ stereotipata, quanto mai lontana dalla realtà, di questo personaggio che, invece, rimane unico nel panorama della letteratura italiana. Uomo irascibile, integerrimo ed eccezionalmente arguto, come ci tramanda la novellistica del Trecento. Ci aiutano a scoprire la sua personalità due curiosi aneddoti: uno di Franco Sacchetti e l’altro di Giovanni Sercambi. Il primo, più noto, ci racconta del poeta che, stizzito con un fabbro per il fatto che questi canticchia i suoi versi storpiandoli, entra nella bottega e butta per aria gli attrezzi di lavoro, rendendogli così pan per focaccia; poi, chiede al giudice di condannare a una multa più pesante un arrogante esponente della nobile famiglia degli Adimari che era andato a raccomandarsi da lui. Nella novella di Sercambi, il poeta si sente offeso dal comportamento del re di Napoli, che, avendolo invitato a un banchetto, lo ha poi confinato in fondo alla tavola perché ha osato presentarsi a corte con abiti dozzinali. Dante ritorna al suo cospetto, ma questa volta sontuosamente abbigliato e il re gli riserva il posto accanto al suo, ma il Fiorentino stupisce tutti quando comincia a strofinarsi i cibi e versarsi il vino addosso a quegli abiti grazie a cui si era meritato il posto d’onore e che, quindi, è giusto che godano di quel privilegio.
Sulla scelta dei passi non ho dubbi: ai miei studenti proporrò il canto XXXIII dell’Inferno. Per la seguente motivazione: è qui uno dei vertici della poesia dantesca e, più in generale, della letteratura mondiale. Il poeta fiorentino, che “ancora oggi ha il potere di accelerare i battiti del nostro cuore”, con Shakespeare e Dostoevskij merita di essere collocato nel Pantheon della poesia di tutti i tempi e il canto di Ugolino, con l’ausilio dei docenti, può contribuire a fare in modo che la lettura di versi scritti sette secoli fa si riveli più avvincente della visione di un film di Harry Potter. È qui che Dante riesce a esprimere, come meglio non si sarebbe potuto fare, il culmine a cui può giungere la malvagità umana, ma anche l’amore reciproco tra un padre e i suoi figli.
Siamo nel nono e ultimo cerchio della voragine infernale, quello dei traditori, nella zona dell’Antenora, dove i peccatori sono puniti nel lago ghiacciato di Cocito. Davvero ripugnante la scena iniziale: un uomo il conte Ugolino della Gherardesca) rode la nuca a un altro uomo (l’arcivescovo Ruggieri) che giace in una buca sotto di lui. Richiesto dal poeta di svelargli la ragione di un odio così brutale, Ugolino, non prima di essersi pulito la bocca sporca di sangue sui capelli dell’arcivescovo, ammette che ciò sarà motivo di gran dolore, dolore che, però, lui è pronto ad affrontare purché quello che sta per dire accresca l’infamia del traditore che egli rode.
Geniale l’inizio del canto: “La bocca sollevò dal fiero pasto/ quel peccator…”, con il termine “bocca “icasticamente collocato al principio del verso, come – se non erro- una sola altra volta nella Commedia, ma in tutt’altro e ben più sensuale contesto: “La bocca mi baciò tutto tremante “, che sono le parole pronunciate da Francesca da Rimini nel Canto V dell’Inferno.
Un senso di profondo disgusto coglie il lettore che prepara il ribrezzo ancora più forte che il poeta intende suscitare nei confronti di chi si è reso colpevole dell’orribile delitto che sta per narrare. L’uccisione del conte per ordine dell’arcivescovo era cosa nota ai contemporanei di Dante, ma il modo in cui essa avvenne, questo solo la poesia può dirlo, andando al di là di ciò che la storia è in grado di tramandare: e la poesia di Dante ci riesce alla grande! Segue la potente scena dell’incubo premonitore di Ugolino: una battuta di caccia sul monte di san Giuliano, un lupo coi suoi lupicini rincorsi dall’arcivescovo e dai nobili pisani, con cagne fameliche che presto li raggiungono e li sbranano. A partire da qui è tutto un crescendo di emozioni: il pianto dei figli del conte ( non importa se, nella realtà storica, due erano effettivamente suoi figli e gli altri due suoi nipoti) che, nel sonno, chiedono del pane; il rumore della porta della torre che viene inchiodata proprio all’ora in cui soleva essere portato il cibo; Anselmuccio che chiede al padre,il quale non ha il coraggio di rispondergli, cos’ha che lo guarda in quel modo; i volti dei giovani scavati dall’inedia e Ugolino che per la rabbia si morde le mani; l’imprecazione del conte “Ahi dura terra, perché non t’apristi”; la morte prima di Gaddo e poi degli altri tre giovani e il padre che brancola sui loro cadaveri chiamandoli per nome prima di soccombere anche lui. Un verso terribile e memorabile chiude il discorso: “Poscia, più che il dolor, poté il digiuno” con cui il poeta dà conferma delle voci che parlavano all’epoca di antropofagia. Potente l’invettiva finale a Pisa: se pure il conte si è macchiato di tradimento verso Pisa, che colpe hanno le sue creature messe a morte dal perfido arcivescovo? Che la Capraia e la Gorgona possano muoversi allora fino alla foce dell’Arno e ostruirla, così che nella città, “vituperio delle genti del bel paese ove il sì sona”, anneghino tutti. Se non ci si commuove di fronte a una vicenda del genere, di che ci si commuove? “E se non piangi, di che pianger suoli?”.
Difficile coinvolgere i “nativi digitali” nella lettura in generale, ancor più nella lettura di un testo quale la Commedia, per i molteplici risvolti culturali che ne rendono ardua la comprensione, eppure è compito di noi docenti tentare in ogni modo di avvicinarli al bello, di educarli al gusto del bello. In questo senso, bisogna continuare a essere un punto di riferimento per i nostri studenti: ce n’è bisogno soprattutto adesso, in un momento in cui sono frastornati da una miriade di notizie fuorvianti, allarmismi esasperati e fake news messe in rete da ciarlatani diventati in un batter d’occhio tuttologi , colpevoli di creare un clima di tensione, panico e irrazionalità che è esattamente l’opposto di ciò che sarebbe necessario per favorire momenti di riflessione e di esercizio dello spirito critico, che sono, invece, indispensabili per fare veramente scuola, in un’aula come a distanza. Noi docenti, poi, cui talora viene richiesto di assolvere inutili adempimenti burocratici spesso in contrasto con la libertà di insegnamento proclamata dalla Costituzione repubblicana, non dobbiamo perdere mai di vista il ruolo che siamo chiamati a svolgere e che si esplica, in primo luogo, nella trasmissione “contagiosa” del sapere.
Ha recentemente affermato il Ministro dei Beni culturali che “Dante è l’idea stessa di Italia “. Vale la pena ricordarlo in un periodo come quello che stiamo vivendo in cui si assiste a insulse e anacronistiche divisioni tra Nord e Sud del Paese. Ed è ancora più importante in un momento di crisi rivendicare con orgoglio il legame con la nostra storia e la nostra cultura, che possono aiutarci a ritrovare quell’unità senza la quale non è possibile affrontare insieme e superare le difficoltà del presente. Speriamo che il Dantedì possa servire anche a questo!
Giuseppe Scafuro
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