Dal 1993 al 2012 i laureati in Italia sono passati dal 5,5% al 12,7% della popolazione in età da lavoro e dal 7,1% al 22,3% dei giovani tra i 25 e i 34 anni. Ma nonostante il nostro sistema si ”sia aperto a un’università ‘di massa’, l’Italia continua a essere uno dei Paesi con la più bassa quota di laureati”. Incidono l’assenza di corsi professionalizzanti e la riduzione delle immatricolazioni di studenti over 25: i dati sono contenuti nel primo ”Rapporto biennale sullo stato del sistema universitario e della ricerca”, presentato il 18 marzo dall’Anvur. Secondo l’Agenzia di valutazione, il ritardo dell’Italia è legato, tra le altre cose, all’assenza di corsi professionalizzanti, ”che nella media europea pesano circa per il 25% sul totale dei laureati”. Inoltre gli atenei non riescono ad ”attrarre studenti ‘maturi”’ e si registra un basso tasso di successo: ”in Italia solo il 55% degli immatricolati consegue il titolo a fronte di una media europea di quasi il 70%”.
La scarsa presenza degli studenti over 25 incide in generale sul numero di immatricolazioni, che sono diminuite del 20,4% tra il 2003-04 e il 2012-13. Negli anni la quota di coloro che si sono immatricolati a tre anni o più anni dal diploma è scesa dal 18,5% all’8% (17% la media Ue), a causa anche del ”drastico ridimensionamento degli incentivi per gli studenti lavoratori”. Dal 2009 inoltre si è ridotto di circa 3 punti percentuali il tasso di passaggio all’università dei 18-19enni. Per quanto riguarda il 3+2, ”il numero delle persone che annualmente consegue un titolo terziario è oggi di circa il 31% superiore rispetto a prima della riforma”. Il passaggio dalla triennale alla specializzazione riguarda però poco più del 55% dei laureati.
Le borse di studio per gli studenti universitari sono ”in forte calo”. Nel rapporto si rileva che ”le risorse non sono sufficienti a garantire a tutti gli idonei l’accesso, con una quota di copertura che varia nel tempo e tra Regioni. A causa di una forte riduzione delle risorse, a livello nazionale e locale, tra il 2009-10 e il 2011-12 si è passati da un tasso di copertura dell’86% a uno del 69%”.
Rispetto ai paesi Ocse, osserva l’agenzia di valutazione, gli studenti che ricevono un sostegno economico in Italia ”sono pochi”. Le regioni del Mezzogiorno, ”dove gli aventi diritto alla borsa di studio sono di più, hanno tassi di copertura inferiori alla media. Il Sud è in ritardo anche per quanto riguarda il numero dei posti alloggio in rapporto agli studenti idonei a ricevere una borsa”. I livelli medi delle tasse di iscrizione nelle università statali erano nel 2011-12 pari a 1.018 euro (4.392 nelle non statali): circa 1.350 euro al Nord, circa 950 euro nel Centro, 716 al Sud e a 656 nelle Isole. L’incidenza degli studenti esonerati dal pagamento della tassa di iscrizione è di circa il 15% nel Mezzogiorno, contro il 10% al Nord e il 9% al Centro.
Come se non bastasse, dal 2009 il finanziamento complessivo del Ministero dell’Istruzione al sistema universitario si è ridotto di circa un miliardo di euro (-13% in termini nominali, -20% in termini reali). La ”riduzione delle risorse è stata resa sostenibile dalla riduzione del personale, soprattutto dei docenti ordinari, e dal blocco delle progressioni di stipendi”.
Inoltre, quasi il 40% degli studenti immatricolati a un corso triennale non conclude gli studi. Dopo il primo anno circa il 15% abbandona l’università e altrettanti decidono di cambiare corso. Il tempo medio per il conseguimento della laurea di primo livello è pari a 5,1 anni, circa il 70% in più rispetto alla durata legale del corso. Solo un terzo degli studenti finisce nei tempi prestabiliti.
Secondo il ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, Stefania Giannini, ”il sensibile calo del numero degli immatricolati nelle università italiane è un dato preoccupante” e gli abbandoni, come il numero degli studenti fuori corso, sono fenomeni ”patologici”. Per il ministro, il dato sugli abbandoni (riguarda il 40% degli iscritti) è ”impressionante”, come anche quello sui cambi di facoltà dopo il primo anno di studio (15%): ”Dobbiamo aiutare gli studenti a diventare consapevoli. Dobbiamo agire sulle patologie in ingresso con un orientamento efficace, che è anche compito del Miur, e in corso di formazione, che è un compito universitario. Cerchiamo di uscire dalla patologia”.
Poche ore prima dell’Anvur, anche AlmaDiploma aveva presentato dei dati tutt’altro che rassicuranti sulla condizione formativa e professionale degli studenti che si sono diplomati a partire dal 2008: “di fronte a un Paese che avrebbe necessità di aumentare la soglia educazionale – fa sapere AlmaDiploma – si registra una minore attrazione dei giovani verso lo studio universitario. Nello stesso tempo diminuisce il tasso di occupazione giovanile e cresce quello di disoccupazione (che sfiora il 40% tra i 15-24enni). E diventa sempre più rilevante il numero di coloro che non fanno nessuna scelta e che ricadono nella categoria dei NEET (Not in Education, Employment or Training), giovani che non studiano e non cercano lavoro”. Su questa condizione pesa come un macigno un dato: “il 41% dei diplomati 2012 dichiara di aver sbagliato a scegliere la scuola fatta; dopo un anno gli stessi ragazzi si dichiarano “pentiti della scelta” nel 44% dei casi”.
Il dato non è sfuggito all’Anief: “la colpa di questi numeri disastrosi – sostiene il sindacato autonomo – ha senza dubbio origine nello scarso orientamento formativo che si pratica nelle nostre scuole già a partire dalla secondaria superiore di primo grado. Se il 17,6% dei nostri giovani lascia i banchi prima del tempo, contro una media dei 28 Paesi Ue del 12,7%, è evidente che i nostri ragazzi si trovano anche a scegliere il loro percorso formativo senza adeguata consapevolezza. Occorre quindi investire nei docenti-tutor, esperti ed esentati dalle lezioni, per fare in modo che possano guidare i giovani nella scelta per loro più idonea”. Secondo l’Anief, per invertire la tendenza occorre “attuare due importanti riforme: anticipare a cinque anni il percorso scolastico e renderlo obbligatorio fino alla maggiore età” e prevedere l’alternanza lavoro, tra i 15 e i 18 anni, per i 150mila giovani che ogni anno lasciano la scuola e non vanno all’università.