Categorie: Attualità

Università: in Italia disuguaglianze sociali e pochi investimenti

L’Italia presenta un grande ritardo nell’istruzione universitaria, che non valorizza la conoscenza e che penalizza significativamente chi proviene da contesti socio-economici meno favorevoli.
E’ quanto emerge dal XVII Rapporto Almalaurea 2015 su Profilo e Condizione Occupazionale dei laureati”, presentato Giovedì 28 maggio all’all’Università degli Studi di Milano Bicocca nell’ambito del Convegno
“I laureati tra (im)mobilità sociale e mobilità territoriale”.
Sono molti i punti cruciali che denotano una difficoltà congenita dello Stato italiano nell’ambito dell’istruzione ed una conseguente sofferenza a livello occupazionale.
A cominciare dal basso numero di immatricolati e laureati, che si somma ad una grande mobilità di studenti dal Sud al Centro-Nord italia.
Questo fenomeno è legato ad un sistema di redistribuzione delle risorse che favorisce alcuni Atenei a discapito di altri.
Le risorse dovrebbero essere allocate seguendo alcuni criteri;
Qualsiasi azione finalizzata a valutare e premiare gli atenei, deve considerare il ritardo nei livelli di scolarizzazione delle famiglie e di apprendimento dei giovani, che è differenziato sui territori.
Il contatto tra Università e mondo del lavoro è un’altra questione spinosa emersa dall’indagine. Valutando la performance occupazionale dei laureati, AlmaLaurea rileva le difficoltà riscontrate dai neolaureati nella fase di inserimento nel mercato del lavoro, a cui si accompagna tuttora un ridotto assorbimento di lavoratori ad alta qualificazione da parte del sistema produttivo e fenomeni di brain drain crescenti all’aumentare del livello di istruzione.
Il fenomeno è spiegato dalla parallela situazione culturale della classe manageriale e dirigente italiana, troppo legata ai contesti informali di selezione del personale e al modello di “impresa familiare” che persiste come formula aziendale più utilizzata. In questo modo, si ostacola la crescita delle risorse scolarizzate e professionali.
Se gli esiti occupazionali ad un anno dalla laurea (sia triennale che specialistica e a ciclo unico) sono leggermente migliori rispetto al resto, la tenuta del lavoro negli anni resta un punto negativo che fa crescere i dati sulla disoccupazione e favorisce la mobilità delle risorse o verso il Centro-Nord italiano o verso l’estero (7%).
Gli investimenti per l’istruzione rappresentano forse il nodo cruciale della questione, che se rapportati agli altri paesi OCSE evidenziano delle grosse lacune.
Infatti il costo per un laureato italiano è circa la metà di altri Paesi europei come Francia, Germania, Spagna e Svezia e una percentuale ancora bassissima, appena il 22%, di giovani laureati tra i 25 e i 34 anni.
Questa politica porta a squilibri e disparità molto forti anche nell’ingresso lavorativo: anche se la laurea rimane uno strumento utile per trovare lavoro rispetto ai diplomati, è evidente che i laureati provenienti da contesti familiari e sociali svantaggiati hanno più difficoltà di inserimento, retribuzioni molto più basse e sono esposti a lavoro precario e irregolare, entrambi in crescita.
A testimonianza di ciò, si rileva che la zona del Paese in cui si è studiato pesa molto di più sulle possibilità occupazionali della regolarità negli studi e che la famiglia di origine determina ancora fortemente il successo formativo e lavorativo. Ciò vuol significare che è molto probabile che lo studente, dopo essersi laureato in una zona più favorevole dal punto di vista dell’Istruzione, quasi 8 volte su 10 trova lavoro nella stessa zona, aumentando in solo colpo, non solo il divario di scolarizzazione tra il suo territorio d’origine e quello dove va a studiare, ma anche la polarizzazione della forza lavoro professionale, che si stanzierà sempre negli stessi territori, gli stessi dove ci sono gli Atenei più “meritevoli”. Un circolo vizioso dal quale è necessario uscire se si vuole ripartire.

Fabrizio De Angelis

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