Cosa può spingere esattamente un giovane ventiseienne ad armarsi di pistola, recarsi davanti la facoltà di Ingegneria e spararsi un colpo alla testa?
Questa è la domanda che probabilmente chiunque si è posto apprendendo la notizia del suicidio dello studente dell’Università di Roma Tre nella giornata di martedì 19 aprile.
Nessuno saprebbe dare una risposta valida o quantomeno attendibile, perché non basta probabilmente uno psicologo per capire che per arrivare ad elaborare una scelta simile devono essere maturati meccanismi e problemi tali da apparire insormontabili. Un po’ come quando si crea una valanga che finisce col travolgere tutto.
In questi casi, ogni parola sembra non essere mai abbastanza. In questi casi, ci si limita a raccontare quel che è accaduto perché non si vuole peccare di sciacallaggio mediatico. Ma nemmeno cadere nella banalità del “ogni parola sarebbe superficiale davanti ad una situazione del genere”.
La verità però è, secondo chi scrive, che qualcosa di ponderato si dovrebbe dire. Non per riempire pagine – cartacee e non – e per fare numero, non per accalappiare l’attenzione e l’approvazione di qualche distratto lettore, ma per fermarci tutti a riflettere un istante.
Sul fatto che un ragazzo, uno studente, abbia pensato di togliersi la vita davanti all’università – e per questo si pensa ad un legame circa la decisione di uccidersi e le sue presunte difficoltà accademiche – che dovrebbe essere per i giovani un luogo nel quale trovarsi, nel quale rintracciare le proprie passioni e definire la propria identità. Un porto sicuro che prepara alla tempesta lì fuori che è la vita, che è il mondo degli adulti.
Essere giovani oggi forse è una delle cose più difficili. Tutti gli strumenti di comunicazione che abbiamo e che, per l’appunto, dovrebbero agevolarci nel comunicare, non fanno che isolarci. Alienarci nella nostra dimensione, nelle nostre angosce personali, in drammi che viviamo e che si consumano interamente dentro di noi.
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Essere giovani in una realtà così precaria e famelica è spaventoso. Nel corso dell’adolescenza praticamente tutti abbiamo avuto un pensiero suicida. Uno sprazzo, un flash, un’immagine dalla durata di un battito di ciglia. Poi c’è chi ne ha avuto più di qualcuno. Chi magari ha persino pensato di provarci davvero, magari proprio per colpa di quella professoressa che nemmeno si impegnava per nascondere il suo astio, magari dopo essersi fatti spezzare il cuore, magari soltanto per dire agli altri “sono qui” e far risuonare un debole campanello d’allarme.
Perché quando sei giovane chiedere attenzioni in modo diretto, a parole, equivale ad aver fallito, quindi ci si nasconde un po’ dietro questi pensieri che fortunatamente non vengono sempre assecondati.
Ma quando scegli di puntarti una pistola contro la tempia, quando premi il grilletto e ti congedi dal mondo, non stai chiedendo attenzioni. Vuoi soltanto morire.
E intorno resta soltanto una piccola folla che si domanda il perché e che si darà delle risposte da sola. Ma le risposte saranno tutte sbagliate e tutte giuste e questo non importerà.
E quindi? Quindi è meglio rimanere zitti e pensare al perché, provando a liberarsi della presunzione di avere una risposta che sembrerebbe spiegare l’enigma e gettare luce sul caso.
Per quanto intelligente possa sembrare, una spiegazione non è sempre tutto quello che occorre davvero. A volte, come in questa circostanza, è meglio non permettere alla logica di rendere tutto il meno confuso possibile. Perché a volte, come in questa circostanza, il senso di inquietudine purtroppo serve ad alimentare il desiderio della società di migliorarsi, di essere meno spersonalizzante ed egoista, di impegnarsi per guardare oltre il proprio naso e provare a vedere cose impensabili come il dolore degli altri.
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