Uno sciopero giusto con ragioni sbagliate

Lo sciopero contro il DdL denominato con ottimismo “la buona scuola” ha visto in piazza la grande maggioranza delle organizzazioni sindacali ed ha sollecitato gli interventi dei settori scuola dei partiti politici, al di là degli orientamenti che ciascuno di questi possiede.

Quando ciò accade, fatalmente si determina una certa confusione negli obbiettivi: chi inquadra nel mirino un aspetto del testo di legge, chi invece quell’aspetto condivide ed eleva la sua protesta nei confronti di un altro. Per tacere di chi il testo l’ha letto superficialmente e lo critica a prescindere, mosso da ostilità per chi lo ha ispirato.

Così riempie le piazze una massa di scioperanti che sembra unanime, ma è in realtà accomunata da ben poco altro che dai toni accesi. Se cessassero un momento di protestare contro l’avversario comune e si parlassero, quei manifestanti, troverebbero molte ragioni di reciproco dissenso e forse si interrogherebbero sull’effettiva utilità di quanto stanno facendo.

Vi sono sigle (Cobas, CUB, vasti settori della CGIL Scuola) che ragionano soprattutto in termini di numero di assunzioni: 100.000 sono poche, si lasciano fuori questi e questi altri. Nell’ambito di tale schieramento, i più “movimentisti” criticano il rafforzamento della funzione dirigenziale prevista dal DdL, ma nella loro protesta si legge in filigrana la polemica antiautoritaria ed egualitaria di matrice sessantottina sopravvissuta al pensiero debole e alla società liquida.

Altri, su un versante opposto, parlano di insufficiente meritocrazia (riferendosi all’assunzione a loro dire indiscriminata) ma più o meno pubblicamente si compiacciono per il Dirigente divenuto dominus legibus solutus.

E così sfuggono, oppure non trovano il dovuto risalto, o ancora si perdono nella gazzarra di alcuni settori dei manifestanti, quelli che sono i veri punti problematici del testo di legge. Sull’argomento AESPI ha già diffuso due documenti e ritorna ora sulla questione confermando quanto già scritto.

Il dirigente che controlla, valuta, assume e licenzia, e come tale fa gongolare i fautori della scuola-azienda, accentua il carattere impiegatizio del lavoro dell’insegnante. Il cosiddetto “organico dell’autonomia” introdotto dal DdL si rivelerà a sua volta un altro fattore de-professionalizzante privando il docente di un rapporto stabile con la scuola e soprattutto con le classi e riducendolo a una sorta di factotum itinerante utilizzato, come tale, in una pluralità di mansioni anche di natura impiegatizia e custodiale. Stretto in una tenaglia tra un dirigente onnipotente e una pratica di lavoro variopinta, labile e incerta, l’insegnante perderebbe così non solo ogni autorevolezza, ma il senso stesso della sua professione, che consiste (lo ricordiamo ai distratti e agli immemori) nel profondo interesse per la disciplina che insegna e nel rispetto e la cura per le giovani persone che si trova di fronte.

I veri sconfitti della “epocale riforma” che si profila sarebbero così gli insegnanti, sedotti e tacitati dalla demagogica promessa delle 100.000 assunzioni. E dunque, con essi, sarebbe sconfitta la scuola italiana nel suo complesso.

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