Continua a far discutere la questione delle misure che può prendere il datore di lavoro nei confronti del dipendente che rifiuta il vaccino, specialmente se si tratta di servizi essenziali.
Per adesso, a ricevere i primi provvedimenti sono gli operatori sanitari. Tuttavia è interessante seguire l’evolversi del dibattito e della casistica, perché il mondo della scuola dovrà presto affrontare la stessa problematica.
L’avvenuta vaccinazione potrebbe essere considerata una condizione necessaria per tenere aperte le scuole in sicurezza, senza continui stop and go, e potrebbe essere richiesta anche agli studenti delle superiori, per i quali la frequenza stabile in presenza è più critica.
I sindacati hanno chiesto una corsia preferenziale, da assicurare al personale della scuola, per poter accedere ai vaccini anti-Covid ben prima della primavera inoltrata, quando sarebbe troppo tardi.
Al momento non c’è obbligo e il personale scolastico non è tra le categorie prioritarie. Ma presto potrebbe cambiare. E se qualcuno rifiuta?
Le vaccinazioni sono partite in primis per chi lavora nella sanità e nelle residenze per anziani, dove il Covid ha fatto il maggior numero di vittime. E già leggiamo dei primi provvedimenti che le direzioni stanno prendendo dove si presenta il problema di una bassa adesione.
Nessuno procede in maniera sprovveduta, anzi solo dopo aver consultato un legale. Così ad esempio, secondo l’avvocato di riferimento di alcune Rsa piemontesi, Maria Grazia Cavallo, il personale che non si sottopone al vaccino contro il Covid dovrebbe essere trasferito a mansioni “che siano prudentemente distanziate dagli ospiti e tali da non generare contatti e rischi di contaminazione”. Se questo non fosse possibile, ha aggiunto, “i lavoratori sarebbero da considerare inidonei alle mansioni di assistenza agli anziani” (fonte: Il sole 24 ore).
Nel vicentino, la direzione di una casa di cura di Arcugnano invita il personale dipendente a vaccinarsi contro il Covid. Non è un obbligo, scrive l’azienda, ma chi non lo farà non potrà presentarsi al lavoro e rischia anche di non percepire lo stipendio. “Questo per tutelare l’integrità fisica dei lavoratori e degli ospiti”. A detta dell’avvocato Fabio Mantovani, esperto di diritto del lavoro, la decisione è legale. Se da un lato non si può obbligare il dipendente a una prestazione medica, dall’altro il datore di lavoro può legittimamente rifiutare la prestazione lavorativa, considerati i rischi (fonte: Il Giornale di Vicenza).
Sono stati per primi il giurista Pietro Ichino e l’ex magistrato Raffaele Guariniello indicare i fondamenti giuridici di provvedimenti disciplinari per i dipendenti che rifiutano il vaccino. Si potrebbe arrivare fino al licenziamento.
Secondo Ichino, l’articolo 2087 del codice civile obbliga il datore di lavoro ad adottare tutte le misure suggerite da scienza ed esperienza, necessarie per garantire la sicurezza fisica e psichica delle persone che lavorano in azienda. Se il rifiuto della vaccinazione metterà a rischio la salute di altre persone, questo rifiuto “costituirà un impedimento oggettivo alla prosecuzione del rapporto di lavoro”.
Secondo Guariniello, “Attualmente non è possibile costringere un lavoratore a sottoporsi a vaccinazione, ma se non lo fa va può essere destinato ad altra mansione”. “Se l’infermiere della Rsa non si vaccina, non sarà più idoneo”. Il riferimento è all’art. 279 del Testo Unico della Sicurezza sul Lavoro. Dal momento in cui il vaccino è a disposizione e il lavoratore lo rifiuta, la norma impone al datore di lavoro “l’allontanamento temporaneo del lavoratore in caso di inidoneità alla mansione su indicazione del medico competente”. Se la ricollocazione non è compatibile con l’assetto organizzativo “si rischia la rescissione del rapporto di lavoro”.
Secondo altri pareri di esperti, la Costituzione all’articolo 32 prevede un bilanciamento fra il diritto alla salute individuale e la tutela della salute pubblica. L’obbligo vaccinale può essere imposto da una legge (o un decreto legge se c’è l’urgenza), qualora sia comprovata l’esigenza di far prevalere l’interesse pubblico per ridurre il contagio.
Certamente c’è lavoro e lavoro, in certi ambienti possono bastare i tradizionali Dpi e il rispetto dei protocolli di sicurezza, mentre in altri, ad esempio nelle strutture sanitarie, il trattamento vaccinale potrebbe essere il presidio più idoneo ad escludere il rischio di contagio, con conseguente possibilità di sanzioni disciplinari per i lavoratori che rifiutano.
Si delinea a questo punto una situazione complicata, in cui ogni datore di lavoro potrebbe interpretare/applicare la norma secondo le proprie valutazioni, aprendo a innumerevoli contenziosi. Chi rifiuta il vaccino, potrebbe cambiare mansione, o essere collocato obbligatoriamente in smart working (se possibile), o in aspettativa non retribuita se non si trovano altre soluzioni organizzative. Considerando però che i dipendenti pubblici sono circa 3 milioni e quelli del settore privato quasi 16 milioni, è chiaro che si aprirebbe il caos.
Che fare allora? Serve una decisione politica. Al governo dovrebbero saperlo bene, se è vero, come pare, che sono allo studio diversi scenari qualora l’adesione alla vaccinazione sia inferiore alle attese. Molti esponenti del governo, del Consiglio superiore di sanità, del Comitato tecnico scientifico si sono già dichiarati per l’obbligatorietà del vaccino per tutto il settore pubblico. Il presidente Conte ha al momento escluso l’obbligo generalizzato, ma al contempo ha fatto capire che si analizzano varie ipotesi. La prima è una specie di “patente di immunità” per rilanciare i viaggi aerei, il turismo, lo sport, gli spettacoli. La seconda consisterebbe nell’obbligatorietà per i dipendenti pubblici, almeno per le categorie più esposte al rischio (personale sanitario e scolastico). La terza riguarda le modalità e gli strumenti per le aziende del settore privato per “convincere” i dipendenti a vaccinarsi.
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