Non si placa la polemica sul termine “umiliazione” usato dal ministro Valditara a proposito delle punizioni da applicare agli studenti che vengono sospesi, in particolare ai bulli. Il ministro ha rettificato, si è scusato, ha spiegato. Ma il problema è un altro. Chi ha incarichi istituzionali deve curare la comunicazione ed essere misurato nelle parole, per non farsi travolgere ogni volta dalle turbolenze dei social.
Da quando è diventato ministro, Valditara è stato bersagliato da continue polemiche, alcune, diciamo la verità, un tantino pretestuose o esagerate, altre inevitabili, come questa dell’“umiliazione”.
Il primo putiferio mediatico è scoppiato con la lettera inviata dal ministro alle scuole il 9 novembre, ricorrenza del Giorno della libertà, istituita con la legge 61/2005, allo scopo di ricordare l’abbattimento del muro di Berlino. La legge stessa invita le scuole a organizzare “cerimonie commemorative ufficiali e momenti di approfondimento che illustrino il valore della democrazia e della libertà evidenziando obiettivamente gli effetti nefasti dei totalitarismi passati e presenti”.
La lettera voleva essere un invito alla riflessione sulla caduta di una “grande utopia” e sull’esito “drammaticamente fallimentare del Comunismo”. Forse il tono era leggermente enfatico, ma tutti i testi scolastici trattano come nefasti i tre totalitarismi del ventesimo secolo. Il 9 novembre celebra la “fine della Guerra Fredda, con la sconfitta del totalitarismo comunista”, come scrisse anche il presidente della Repubblica in occasione del 30° anniversario.
Valditara è stato accusato di voler fare una propaganda da Minculpop o addirittura di voler costruire una “ortodossia ideologica” per espellere le forze di sinistra. Una reazione veramente sopra le righe, tanto che il ministro ha ritenuto opportuno replicare con delle “puntualizzazioni” al Corriere.
Ha richiamato la legge 61/2005 e sottolineato che la sua Circolare era un invito alla discussione nel rispetto dell’autonomia delle scuole e dei docenti. La puntualizzazione è ridondante, perché basta leggere la norma citata per capire la piena pertinenza e legittimità dell’intervento. In questo caso le polemiche erano pretestuose. Il clamore suscitato doveva però suonare come un campanello d’allarme a tenere una comunicazione misurata fino alle virgole.
Nell’ultima settimana c’è stato un crescendo sempre più esplosivo. E questa volta non si tratta della solita opposizione con l’artiglieria puntata, ma il ministro ci ha messo di suo.
– Valditara è intervenuto sul Reddito di cittadinanza, dicendo che è “È moralmente inaccettabile darlo a chi a chi non ha terminato l’obbligo scolastico”, sottovalutando che il più delle volte i cosiddetti Neet vengono da famiglie povere e disagiate e che la scuola non ha saputo trattenerli per completare la loro formazione.
– Ha detto inoltre che “l’educazione al lavoro è fondamentale, deve essere appresa già dalle elementari”. L’idea è quella di abituare il ragazzo “alla responsabilità e alla bellezza del lavoro, coniugare formazione con lavoro: questo è un obiettivo, una strategia che ispirerà il mio ministero”. Detta così, sembra però più una boutade che una strategia. Non sarebbe meglio cominciare a parlarne quando questa sarà in fase di consolidata elaborazione?
– Ma l’inghippo comunicativo è stato proprio quello dell’“umiliazione” per punire i bulli con lavori socialmente utili. “Evviva l’umiliazione che è un fattore fondamentale nella crescita e nella costruzione della personalità. Da lì nasce il riscatto”, si è lasciato scappare il ministro, pur nel contesto di un ragionamento il cui senso complessivo era volto alla ricerca di strumenti più adeguati nell’affrontare certi comportamenti violenti dei ragazzi.
Le parole “riscatto, umiliazione, moralmente inaccettabile” sono oggetto di una marea di commenti negativi tanto nel contenuto quanto nella forma. “Valditara ha questo eloquio intimidatorio, ampolloso, da verbale di questura del 1930”, scrive il Fatto Quotidiano del 28 novembre.
Certamente si è trattato di una espressione infelice, che, misurando meglio le parole, si sarebbe potuta evitare. Invece è deflagrata viepiù con le “precisazioni” successive. Il ministro in un primo momento ha riconosciuto di aver usato “un termine sicuramente inadeguato, cosa di cui mi dispiaccio io per primo”. Il caso avrebbe potuto sgonfiarsi e finire qui. E invece no, perché sono arrivati ulteriori chiarimenti che hanno alimentato ulteriori polemiche. “Riconfermo totalmente il senso del messaggio”, dice a Repubblica. “Alla società dell’arroganza occorre rispondere con la valorizzazione della cultura del rispetto e del limite e con la riscoperta del valore fondamentale dell’umiltà”. Gli studenti che commettono gravi scorrettezze devono imparare a “essere umili” . Insomma l’umiliazione diventa umiltà. Ma si sa che “x’è peso el tacon del sbrego” (è peggio la toppa dello strappo), come recita un vecchio saggio proverbio veneto.
Al giorno d’oggi la comunicazione, anche istituzionale, è profondamente cambiata e i social hanno un ruolo imprescindibile, con pregi e cdifetti. Per chi ricopre un ruolo nelle istituzioni sarebbe però opportuno muoversi con saggezza e prudenza, evitando la fretta da digitazione compulsiva e misurando le parole. Se il cittadino comune è ormai abituato a esprimersi in modo umorale e immediato, chi ricopre incarichi pubblici non può permetterselo. Dovrebbe darsi una linea da seguire, efficace, chiara, senza parole di troppo o “male interpretabili”. L’umiliazione/umiltà e il putiferio scoppiato per giorni dovrebbero farlo ben capire.
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