La docente e scrittrice Valentina Petri ha scritto un libro, appena pubblicato, dal titolo tragicomico “Non ti sento“. Il suo nuovo lavoro parla del periodo della pandemia da Covid-19 e le sue ricadute sulla scuola, tra Dad, isolamento e incomunicabilità.
Ecco le sue parole, intervistata a La Repubblica, sul disagio degli studenti: “È che si devono continuamente confrontare con modelli e standard estetici inarrivabili, in una società imbevuta di ansia da prestazione. Il mio osservatorio è un istituto professionale, dove il disagio arriva tutto insieme e dipende molto dalle condizioni sociali e familiari di partenza, nei licei pesano di più le aspettative delle famiglie. Non so se viene tutto dal Covid o se è stato la grande oliva in questo Martini”.
Ecco alcune battute sul reclutamento dei docenti: “Rimane una fabbrica del precariato dove trovi giovani motivatissimi e chi insegna per ripiego. Chi vuole insegnare, e di sicuro nessuno lo fa per soldi, deve volerlo, ma deve anche sapere cosa lo aspetta. Lo scopri in classe, per questo i tirocini sono importantissimi. Se ti piace stare in classe allora questo è già la metà dell’essere insegnante e diventi migliore se hai uno staff di bravi colleghi intorno come è accaduto a me. In tre mesi di Dad è emerso quanto ci sia in rete, tutorial e lezioni, con influencer che spiegano anche meglio di me, ti viene da chiedere: ma noi a cosa serviamo? Noi ci siamo, siamo i loro unici adulti di riferimento che stanno lì, ogni giorno. Per tirare fuori il meglio da ogni ragazzo, per trasmettere conoscenze con spirito critico, serviamo a mediare i contenuti, placare ansie, sedare risse e soprattutto serviamo a costringerli a stare insieme. Il nostro obiettivo non è formare persone con competenze da immettere subito nel mercato del lavoro, ci prendiamo il lusso di insegnare l’inutile perché anche le parafrasi del sonetto di Foscolo servono a capire le domande del passato. Se ti devo insegnare solo a pigiare un bottone di un macchinario ti tolgo la possibilità di capire il mondo e te stesso”.
“La scuola è molto raccontata da chi è pronto a spiegarci come dovrebbe essere senza sapere come è”, ha aggiunto, per poi concludere con una riflessione sul caso Pioltello: “Con il Ramadan ci abbiamo sempre fatto i conti, senza polemiche. Così come ogni istituto fa i conti con la realtà del proprio territorio. Quando lavoravo in una scuola a Santià il Carnevale era così importante che in quei giorni non avevi quasi nessuno in classe. L’autonomia delle scuole non va toccata e non ha nemmeno senso fissare tetti per gli stranieri in classe. Dire straniero non vuole dire più niente, perché stiamo parlando per la maggior parte di ragazzi nati e cresciuti qui. Sono cose che la politica non dice, preferisce al contrario slogan di pancia da campagna elettorale. Se il problema è la conoscenza della lingua allora si facciano classi più piccole e si diano più risorse del pacchetto di 10 ore di italiano per chi arriva da altri Paesi. Investire in istruzione, non c’è altro da dire. Invece siamo ancora considerati vuoto a perdere”.
Fermare le lezioni nella giornata di conclusione del Ramadan, come è accaduto il 10 aprile nell’istituto comprensivo statale Iqbal Masih di Pioltello, non è un segnale di crescita ma “un arretramento”, piuttosto si pensi di introdurre il tetto di “un 20% di bambini stranieri in una classe”: il doppio concetto è stato espresso dal vicepremier Matteo Salvini durante un suo intervento a Porta Porta su Rai1. E più di qualcuno ha “letto” nelle parole del leader leghista ha replica piccata al Capo dello Stato, Sergio Mattarella, che il giorno prima si era detto entusiasta per l’operato “che il corpo docente e gli organi di istituto svolgono nell’adempimento di un compito prezioso e particolarmente impegnativo”.
“Non credo che in nessun Paese islamico chiudano per la Santa Pasqua o per il Santo Natale – ha detto Salvini – Finché l’Islam non si darà una struttura e non riconoscerà la parità tra uomo e donna chiudere la scuola mi sembra un pessimo segnale. È un segnale di cedimento e arretramento chiudere per il Ramadan”.
Quindi, il vicepremier è tornato a riproporre l’idea lanciata qualche anno quando scoppiò il caso di un istituto comprensivo capitolino, la Pisacane del quartiere Tor Pignattara, dove la maggior parte degli alunni iscritti erano stranieri o figli di stranieri.
Secondo Salvini, quando in una classe “hai tanti bambini che parlano lingue diverse e non parlano l’italiano è un caos. Bisogna controllare la presenza di bambini. Un 20% di bambini stranieri in una classe è anche stimolante ma quando gli italiani sono il 20% dei bambini in classe, come fa una maestra a spiegare?“.
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