Tra i tanti problemi che la scuola deve quotidianamente affrontare, si pensa in questi giorni, all’abolizione del valore legale del titolo di studio, operazione che tradotta in termini minimi, significa creare una sorta di egualitarismo tra i laureati ponendoli tutti sullo stesso piano.
A cosa serve allora laurearsi? E gli anni di studio universitari trascorsi non avranno più la loro giusta efficacia? Invece di puntare verso l’alto, ossia verso una maggiore qualità dei laureati, puntiamo invece verso un ulteriore appiattimento. Se questa norma è in vigore negli altri Paesi dell’Europa, si può dire che l’Italia non è ancora pronta, non è ancora preparata ad affrontare una questione del genere, perché deve cambiare la mentalità.
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Non è forse che dietro questa operazione si vuole legalizzare la “raccomandazione” o trovare degli escamotage per “aiutare” coloro i quali hanno conseguito un voto di laurea non dignitoso?
Un tempo la laurea costituiva per una famiglia povera motivo di orgoglio, di prestigio e avere in casa un medico, un avvocato, un insegnante era motivo di onore. “Ho uno, due, tre figli professionisti in casa”: era questa l’espressione che riempiva di gioia, di felicità genitori che non avevano avuto la fortuna di studiare e che, in quel momento ponevano tutte le loro speranze nel proprio figlio.
Oggi, invece, si pensa al contrario: la laurea non è più titolo sufficiente per affermarsi nel mondo del lavoro perché bisogna specializzarsi, perfezionarsi.
E cosa si pensa di fare? Gli togliamo il valore legale così nei concorsi pubblici non si creano disparità tra media degli esami universitari, voto di laurea conseguito e tutti possono partecipare partendo da zero. Nel mondo della scuola l’abolizione del valore legale del titolo di studio cosa rappresenta? Certamente un ulteriore pugno stomaco alla considerazione sociale dei docenti. Questa è la verità nuda e cruda, purtroppo!
Mario Bocola
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