Ha fatto e farà ancora discutere la recente esternazione del Ministro dell’Interno Matteo Salvini (rilasciata l’11 novembre Milano alla scuola politica della Lega, e ripresa il giorno dopo dal leghista Mario Pittoni, presidente della VII commissione al Senato, al Convegno dell’ANP “La scuola del futuro” Roma) a favore dell’abolizione del valore legale del titolo di studio. D’altronde esisteva già una proposta di legge del Movimento 5 Stelle, depositata in Parlamento il 31 luglio scorso dalla deputata Maria Pallini, per vietare «di inserire il requisito del voto di laurea nei bandi dei concorsi pubblici». Che i due partiti di Governo abbiano finalmente un motivo per amarsi dopo il matrimonio d’interesse?
Su questo argomento si sono espressi anche i lettori de La Tecnica della Scuola manifestando la loro netta contrarietà all’abolizione.
Tuttavia una differenza tra le due proposte esiste: la motivazione dichiarata della proposta M5S è egualitaria, e finalizzata a non danneggiare nei pubblici concorsi i candidati che abbiano riportato un voto di laurea più basso. L’onorevole Pallini ha infatti spiegato che la sua proposta di legge «Ha come obiettivo consentire a tutti i laureati, indipendentemente dal voto di laurea, la possibilità di accedere ai concorsi pubblici. È quindi strumentale fare riferimento a un presunto orientamento del Movimento 5 Stelle a favore dell’abolizione del valore legale del titolo di studio che non è per nulla contemplata nella proposta».
Principio comunque discutibile (anche perché conferisce più valore alla lotteria dei concorsi che al 110 e lode di un laureato modello); ma comunque meno provocatorio della motivazione addotta dalla Lega nel 2008 per propugnare l’abolizione del valore legale del titolo di studio: «Diversi Atenei, soprattutto meridionali, offrono un servizio nettamente inferiore alla media. Questo squilibrio provoca la mancanza di concorrenza tra Atenei, ma soprattutto si ripercuote sul meccanismo dei concorsi pubblici che penalizza sistematicamente chi proviene dalle Università del Nord». Ergo, urgerebbe impedire la «meridionalizzazione delle strutture pubbliche». Antico pallino della Lega, che ora si erge a paladina dei sacri confini della Patria italica contro il barbaro invasore.
A rassicurare un po’ i difensori del titolo di studio è fortunatamente intervenuto Luigi Gallo, presidente della Commissione Cultura, Scienza e Istruzione della Camera: «Concordo con quanto ha già detto il ministro Bussetti: il tema non è nel contratto di Governo e per noi non è una priorità».
Ma perché questo tema del valore legale del titolo di studio torna periodicamente da almeno un quarantennio a complicare ulteriormente la già intricata matassa della politica italiana in materia d’istruzione? Quali settori della nostra società sono realmente stakeholder (“portatori d’interessi”) rispetto all’abolizione del valore legale del titolo di studio?
Com’è noto, l’unico punto non ancora realizzato del “Piano di rinascita democratica” della loggia massonica P2 è proprio questo: abolire la validità giuridica dei titoli di studio e la loro ufficialità, riconosciute finora dalla legge.
Se anche questo punto fosse attuato, il mondo del lavoro si ritroverebbe ancora più frantumato. Nessun lavoratore, infatti, a nessun livello, potrebbe sperare di far valere i propri diritti per quanto riguarda retribuzione e mansioni svolte. La totale deregulation giuridica sui titolo di studio genererebbe un’autentica falcidia di diritti ai danni di tutti i salariati: dall’operaio al professore universitario, dal docente delle scuole al professionista e all’impiegato; insomma, alla stragrande maggioranza degli Italiani e alle loro famiglie.
Che sia proprio questo il vero motivo per cui alcuni settori imprenditoriali premono per attuarlo? «A pensar male del prossimo si fa peccato ma si indovina», diceva papa Pio XI. Pochi ricordano, del resto, che persino il Governo Monti presentò nel gennaio 2012 un disegno di legge in proposito: a confermare l’interesse dei ceti dirigenti di questo Paese per la questione.
Se il progetto passasse, aumenterebbe — sancito per legge — il distacco tra laureati di seria A e di serie B, e di conseguenza tra Università di serie A (quasi tutte del Nord) e di serie B: fenomeno che già l’autonomia universitaria ha creato, accentuando la disparità delle risorse economiche, e peggiorando quindi il divario tra Nord e Sud.
Del resto — secondo il dogma neoliberista tanto in voga nel pianeta azzurro in questo inizio di millennio — la Scuola deve servire alle imprese; non alla società nel suo complesso; né tantomeno alla realizzazione dell’individuo. Che qualcuno sogni di poter dire al proprio dipendente «Me ne infischio dei tuoi studi»?
Se il titolo di studio non ha valore legale, la scuola pubblica non conta più nulla, e le uniche scuole di un certo peso diventano quelle d’alto bordo (private, of course). Le scuole statali (le uniche pubbliche!) saranno quelle dei poveracci, e conferiranno loro pezzi di carta straccia che non servono a un bel nulla. Si accentuerà e si incoraggerà così la fuga all’estero dei laureati, sempre più amaramente consapevoli che in Italia per loro non c’è futuro.
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