L’articolo “Valutazione alunni, come non farli sentire “giudicati” ma predisposti alla crescita” mi trova sostanzialmente d’accordo: giudicare in termini numerici le prestazioni (qualsiasi prestazione: scolastica, sportiva, ecc.) è un compito infelice.
Ma necessario: le regole scolastiche esigono – almeno finora così è stato – che una prova, scritta od orale che sia, venga classificata: “bene”, “male”, “benino”, “maluccio”, ecc.
Negli anni da studente e poi in quelli da insegnante ho visto valutare – e svalutare – in ogni maniera: dall’insegnante che dà un 4 allo studente che coglie a non seguire la lezione a quello che ancora adesso adotta il 6 politico per chi non studia niente (quindi abolisce di fatto l’insufficienza) e riserva i voti onorevoli a chi almeno qualcosa lo fa.
Valutare è inevitabile. Nella vita tutti veniamo valutati, e non solo a scuola. Anche il semplice giudizio che qualcuno dà su di noi (“quello lì è un incapace, quello là invece è un tipo in gamba”) è una valutazione, per quanto informale sia e non abbia magari conseguenze.
Ai concorsi per i posti pubblici occorre valutare per poter scegliere – si spera – il migliore, il più adatto ad un certo compito. Così fa il datore di lavoro che deve assumere un collaboratore.
E’ insito nella natura, e non solo umana, valutare. I maschi di certi animali ingaggiano lotte furibonde e a volte mortali per essere valutati i migliori dalle femmine con cui accoppiarsi.
E non illudiamoci: trovare un’uniformità di criteri nella valutazione è impresa (quasi?) impossibile.
Quando qualcuno mi domanda: “sei severo con i tuoi allievi?” io rispondo: “cerco di essere giusto”.
Daniele Orla
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