Riceviamo a pubblichiamo un contributo di Stefano d’Errico, segretario nazionale Unicobas, autore de La Scuola distrutta. Trent’anni di svalutazione sistematica dell’educazione pubblica e del Paese (Mimesis, Milano 2019, acquistabile con la Carta del docente, che ripercorre la parabola discendente del docente italiano ridotto a impiegato senza carriera).
Nel contributo a seguire, d’Errico si chiede invece se è anche colpa della scuola se insospettabili pseudo-giornalisti scrivono su autorevoli testate che gli indiani d’America furono messi nelle “conserve” e che Stalin deportò molte persone nei “gulash”. E siccome spesso il “linguaggio giornalistico”, alla pari di quello politico, comprende anche una distruzione sistematica dei passaggi “formali” della grammatica, l’autore arriva alla conclusione che “una colpa della scuola effettivamente c’è: quella di averli ‘licenziati’ e diplomati tutti insieme …e troppo in fretta”.
Linguaggio giornalistico e distruzione della lingua
È invalso in Italia l’uso comune di far libri sulla scuola, nonché il vezzo di vomitare ogni insulto sulla stessa. I più accaniti sono taluni giornalisti. Giovanni Floris, all’epoca ideatore di Ballarò, ed oggi conduttore della nota trasmissione de “La7” Di-martedì, nel 2008 ha addirittura contrassegnato la propria opera prima con il titolo denigratorio La fabbrica degli ignoranti. La disfatta della scuola italiana (Bur, Milano 2008). Dal canto suo, Ernesto Galli della Loggia, ben più quotato intellettuale, nel suo recentissimo L’aula vuota. Come l’Italia ha distrutto la sua scuola (Marsilio, Venezia 2019), sbaglia clamorosamente l’anno di approvazione (che colloca nel 1978 anziché nel 1974) di due leggi fondamentali come i Decreti Delegati (Dprr. 416 e 417), per di più annoverandoli fra le cause di decadenza dell’istruzione pubblica italiana. Però non s’accorge che nel 2000 la “autonomia” ha eliminato quella partecipazione democratica e quelle elezioni dirette di rappresentanti professionali del corpo docente (e non solo) che quella normativa, alla base del rinnovamento della Scuola italiana, aveva introdotto.
Eppure: “Come il medico – scriveva James B. Reston nel 1945 sul New York Times – il giornalista ha la possibilità di avvelenare i suoi lettori, e la differenza principale è solo che un giornalista può avvelenare un maggior numero di lettori di quanti pazienti possa avvelenare un medico”. Infatti, chi ha destrutturato l’idioma nazionale più del cosiddetto linguaggio giornalistico?
A proposito di giornalismo, scrive Sandra Korshenrich:
[…] Un punto spesso tralasciato dagli aspiranti, e non curato doverosamente in sede di corsi e corsini di giornalismo della durata di pochi costosi giorni, è quello della punteggiatura, degli accenti e delle maiuscole. […] Ed invece è la parte più incisiva dell’articolo, e la più difficile da apprendere in modo professionale. In qualunque testo, la punteggiatura impone il ritmo di lettura e di apprendimento, rendendoli attività scorrevoli e piacevoli, oppure antipatiche e faticose. […] Da evitare, gli accenti superflui che molti hanno la misteriosa consuetudine di usare: le parole fa, so, sa, non fa, non vanno, ad esempio, accentate. […] Inoltre, “un po’” si scrive con l’apostrofo, come tutte le altre parole mozze, che non vanno mai con l’accento. Perché, poiché e né con l’accento acuto, le altre parole vanno accentate con il normale accento, che non è sostituito dall’apostrofo (tipo e’, andra’, ecc., anche se alcune agenzie di stampa, fra le quali anche l’Ansa, hanno la strana usanza di scrivere queste parole così).
E richiama i:
vezzi così di moda fra le firme oggi più amate: neologismi inventati al momento, francesismi improbabili, variazioni comiche, forzature ironiche.
Spesso il “linguaggio giornalistico” comprende anche una distruzione sistematica dei passaggi “formali” della grammatica, piegata alle esigenze di spazio ed alla velocità di chi scrive usando il computer, ad esempio con l’andare a capo senza una corretta divisione in sillabe. Lo stesso fanno taluni leaders politici quando si lanciano in proclami altisonanti a metà fra dialetto e neo-lingua italiota: “Tanto si capisce lo stesso” (pensano), ma non si chiedono cosa…
Sarò assolutamente “bipartisan”, anche perché (purtroppo) da decenni nessun quotidiano o rivista che dir si voglia brilla per sagacia, controllo e (soprattutto) competenza. Non parliamo poi di radio e tv. Del resto buona parte dei politici che contano sono passati prima per il giornalismo (dalla piccola testata parrocchiale o di una sezione di partito al grande quotidiano nazionale). Va da sé che sia a destra che a sinistra il meccanismo è quello dell’“invarianza”.
Cominciamo dai mostri sacri. Caliamoci nel salotto radiofonico della Palombelli. È la vigilia del 29 Settembre 2010, settantaquattresimo compleanno dell’allora Cavaliere e giornata fatidica per il Paese: l’indomani il grande leader porrà la fiducia per far scoprire le carte ai “finiani”. Ergo, gli opinion makers sono tutti in fibrillazione. La moglie di Rutelli annuncia che in studio si discuterà con una “grande giornalista”: la Annunziata. La Lucia nazionale (già presidente della Rai) esordisce subito con due strafalcioni di fila. Parlando del capo di Futuro e Libertà per l’Italia, asserisce che “io, se sarei in lui …mi dimetterei dalla presidenza della Camera”. Infatti, aggiunge: “quel ruolo comincia a …pesarci”. Ed il soggetto era sempre “lui” (pesare a lui = pesargli).
La stessa Annunziata, “patron” di una trasmissione strategica di commento politico della sinistra italiana, la domenica precedente ospitava Veltroni. L’ex candidato premier, memore delle antiche frequentazioni, esordiva con un amichevole “tu”, ma la virago addestrata al “manifesto” rimetteva subito le cose in pari, con uno sprezzante “lei”. Ligia alla linea: Walter è caduto in disgrazia e s’è permesso da qualche giorno di contestare il segretario del Pd, all’epoca Bersani (quello che gli ha soffiato il posto senza grandi risultati, visto che nei sondaggi, dal tempo di Veltroni il partito era già crollato dal 33,5% al 22,5%). Non importa, l’Annunziata è uno spirito critico spesso completamente allineato al più forte (si fa per dire), il capo-bastone del partito di riferimento (che per molto tempo è sempre stato D’Alema).
Maurizio Belpietro, direttore di “Libero”, persevera ad avventurarsi nella declamazione di vocaboli inglesi alla moda, ma la pronuncia delle “s” tradisce puntualmente un’idiosincrasia congenita con la lingua anglosassone.
Per quanto attiene a Vittorio Feltri, vanno poi segnalati faticosi sforzi concettuali. A “Porta a porta”, nel tentativo di far passare in cavalleria i trentamila posti di bidello tagliati da Tremonti, obiettò ad un attonito ed indifeso Pier Luigi Bersani che, dopo l’ingresso nelle scuole delle imprese di pulizia in appalto, non servivano più collaboratori scolastici. Non ebbe risposta. Eppure la vigilanza su bagni e corridoi non la fanno i pulitori (ma né il segretario del Pd, né il Governo della “sicurezza” ed i suoi sodali ci avevano pensato).
Invece da una collaboratrice di Santoro, a commento di una notizia, ho sentito dire che era stato “sgominato un reato” ed il 10 febbraio 2011 è stata la volta del buon Vauro Senesi, che ha scritto in una vignetta la parola “antirabica” con una sola b. E nella pubblicità di un importante evento televisivo (congiunto), quel Vieni via con me che ha fatto epoca, a Fabio Fazio ho visto scrivere su di una lavagna “io vado via perchè”, mentre Roberto Saviano replicava (anche lui con un gesso) “io resto qui perchè”, entrambi con l’accento grave anziché acuto sull’ultima e.
Che dire poi del Tg2 che il 27 marzo 2011, nel pieno dei bombardamenti sulla Libia, segnala che Gheddafi “protesta in base ad una risoluzione Onu del 1973”. Peccato che quello fosse il numero dell’ambigua disposizione delle Nazioni Unite che ha autorizzato i bombardamenti: nulla a che fare con il calendario del Novecento. Il “maestro” televisivo non è quasi mai affidabile.
A seguire, alcuni esempi suggeritimi da un amico (al quale rubo la battuta). È colpa della scuola se insospettabili nuovi pseudo-giornalisti scrivono su autorevoli testate che gli indiani d’America furono messi nelle “conserve” e che Stalin deportò molte persone nei “gulash”? Per non riferire degli oppositori del fascismo finiti (per taluni a prendere il sole) al “confine”.
Anche il Tg2 è in pole position nella gara delle italioterie. Ad esempio, alle h. 13.00 del 7.11.2010, nel contesto relativo ai monumenti pericolanti e non curati in tutta la penisola, dopo il crollo della Domus Gladiatoria di Pompei, lanciava l’allarme anche sulle “due torri degli asinelli” di Bologna. Asinelli, sì, appunto …ma la Garisenda perché non chiamarla con il più moderno e felliniano “Gradisca”? Invece nessuna traccia di un’analisi sullo spreco delle risorse fornite alla protezione civile che, esautorata la sovrintendenza ed ottenuto dall’allora Cavaliere l’affidamento del sito archeologico in questione (finalmente libera da ogni gara d’appalto), ha speso duecento milioni per le ristrutturazioni e seicento per l’immagine e la “promozione”. Con ottimi risultati pubblicitari: il crollo ha fatto davvero il giro del mondo!
Capacità storica? Il 23 febbraio 2007, su di un autorevole quotidiano nazionale, in un articolo dedicato “al secondogenito di Carlo e Camilla che andrà in Iraq”, riferendosi l’autore al nonno paterno, leggiamo che gli s’attribuisce la qualifica di “ufficiale di marina combattente nel Pacifico durante la prima guerra mondiale”. Perché mai quindi, meravigliarsi solo della gaffe di Conte che scambia l’8 Settembre per il 25 Aprile o di quando Di Maio, sul suo profilo facebook passa il Venezuela per il Cile dell’11 Settembre 1973?
Proviamo allora con il sesso. Il 5 giugno 2007, su un altro quotidiano scopriamo un:
Bacio saffico tra Sacha Baron Cohen e Will Ferrell agli Mtv Movie Awards di Los Angeles: il protagonista di Borat si è avvinghiato all’attore-amico per il miglior bacio durante la serata che ha visto trionfare Johnny Depp.
Saffo però era una donna, perciò l’aggettivo “saffico” si può usare solo riguardo a due donne, non a due uomini.
Ma c’è molto d’altro. Su una radio privata (quindi in voce, senza possibili refusi di battitura) ascoltiamo: “Scoperta la villa dell’ultimo re di Roma, Tarquinio il Serbo”. Un prete televisivo parla di penitenze quaresimali ad un’annunciatrice dei programmi del mattino, la quale replica: “Sì, c’era anche chi indossava il silicio”.
Le radio sono una sorgente infinita di dabbenaggini. Eccone altre:
Per il terzo anno consecutivo i laboratori di ricerca di Telecom Italia hanno presenziato alla quarta edizione della Notte dei Ricercatori… Ho fatto una settimana bianca di quindici giorni… L’erba volant… Sono tentennato di comprarmi un motorino… Dove vai il 15 di ferragosto?… Non sono molto efferato sul programma… Non bisogna perdere di vista il nocciòlo della situazione… Ho una domanda: il vostro software potrebbe soccombere alle nostre necessità?
E non si creda trattarsi solo di piccole emittenti private. Come avrete arguito, autorevoli “perle” appaiono anche nel corso di amabili conciliaboli nelle più note testate nazionali (pubbliche e non).
Del resto sono i giornali ad aver coniato termini demenziali come “autoparlante”, in luogo di altoparlante, e va fatta risalire ad un esperto come Maurizio Costanzo l’invenzione (per fortuna mai ratificata dal Devoto-Oli) del termine “estortori” (subito copiato da innumerevoli epigoni televisivi). Forse pensava di aver colto una lacuna del dizionario: purtroppo per lui esisteva già il molto più consono “estorsori”…
I mostri sacri televisivi difettano spesso anche in cultura generale, e non solo di quella un tempo necessaria per ottenere la maturità. E ciò vale persino se si tratta del loro pane quotidiano: la nozionistica del piccolo politologo mezzobusto. Eppure, appena noto al pubblico catodico, chiunque si cimenta subito in “tuttologia”. Così i conduttori vogliono fare anche gli scienziati, ed i professoroni s’esercitano in politica. I risultati sono spassosi. Ho visto Antonello Piroso (Niente di personale, su “La7”) rimanere attonito perché ignorava che la biografia del Dalai Lama fosse nota al grande pubblico grazie ai film Kundun e Sette anni in Tibet, mentre Piergiorgio Odifreddi, addentrandosi in politica e parlando del filosofo Gianni Vattimo, all’epoca eurodeputato dipietrista, sosteneva fosse stato eletto nelle liste del Pdci. Non sono peccati gravi, ma indicativi del pressappochismo generale tipico del Paese.
Riprendendo il tema d’apertura, si può concludere col dire che rispetto a giornalisti (e politici) una colpa della scuola effettivamente c’è: quella di averli “licenziati” e diplomati tutti insieme …e troppo in fretta. Un favore di certo mai restituito, visto che anche grazie a loro (spesso destinatari di prebende milionarie in pubblico danaro) gli insegnanti italiani sono i meno retribuiti dell’Unione e che s’investe in istruzione e formazione solo il 3,9% del Pil contro una media europea del 5,2%. Spendono meno di noi solo Slovacchia (3,8%), Romania (3,7%) e Bulgaria (3,4%). A parità di potere d’acquisto, la spesa per allievo risulta inferiore alla media europea di 230 dollari nella scuola Primaria, differenza che sale a 917 dollari pro-capite nella Secondaria di I grado, fino ai 1.261 dollari nella scuola Secondaria di II grado. Per non parlare dell’educazione Terziaria, per la quale si spendono 7.352 dollari se si escludono gli investimenti per ricerca e sviluppo, quando la media europea è pari a 11.132 dollari, con una differenza di ben 4.741 dollari.
Stefano d’Errico