“Very, very”, “many, many”, ma anche “super-duper”, quasi da fumetto: sono tra i vocaboli più utilizzati dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump.
L’analisi dei linguisti, ripresa dall’agenzia Ansa, giunge al termine dei primi 100 giorni di presidenza.
Ma soprattutto, dopo l’ultima intervista all’AP, concessa lo scorso fine settimana. “Va oltre i limiti del nostro tipo di analisi”, ha detto la storica del linguaggio Kristen Du Mez citando i classici “intensificatori verbali” del “Trump-speak: nessun presidente lo aveva mai usato prima”.
David Beaver, dell’Università di Austin, ha paragonato la lingua di Trump a quella della pubblicità, “basata sul potere persuasivo delle emozioni”.
John Baugh, alla Washington University, ci ha visto “quella dell’uomo della strada di New York, che ‘te la canta tutta’ ed è anche un po’ bullo”.
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Il suo linguaggio stride non poco rispetto a quello dei suoi predecessori alla Casa Bianca, che hanno sempre parlato in modo “costruito”, ponderando le parole e preparandosi prima di interviste e conferenze stampa con risposte pronte ad esser messe sul piatto, ha spiegato la Jamieson.
Con Trump, questo modello è andato in soffitta. Per fare posto alle estremizzazioni: le cose diventano “terribili” o “incredibili”, “buone” o “pessime”.
Le ripetizioni abbondano: quando Trump vuole portare a casa un punto, dice ancora l’Ansa, il presidente “non molla la presa. Se l’argomento della domanda non gli piace, cambia soggetto o mormora parole incomprensibili”.
Eppure, a via di “ripetizioni, non sequitur, superlativi e tentativi di conquistare la fiducia dell’ascoltatore, ripetizioni di ‘you know’, sai”, secondo Paul Breen dell’Università’ di Westminster in Gran Bretagna, “c’è metodo, non follia, nella lingua di Trump”.
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