“La scuola non c’entra, ognuno deve pensare alla sua famiglia”. Queste le parole del nuovo preside della scuola media Corrado Alvaro di Melito Porto Salvo, la piccola realtà del calabrese sulla quale, negli ultimi giorni, si è focalizzata l’attenzione dei media.
Il perché è ormai noto a tutti: la vicenda della sedicenne violentata da tre anni da nove uomini, tra cui il figlio del maresciallo dell’esercito e il rampollo della famiglia Iamonte, il figlio del boss della ‘ndrangheta Remigio Iamonte. Le violenze sono incominciate quando la bambina aveva soltanto tredici anni, i suoi aguzzini la andavano a prendere all’uscita di scuola.
Il vecchio preside Anastasi ha parlato di “una situazione squallida. Ma all’omertà non ci credo”.
Eppure le autorità non sono dello stesso parere. A quanto pare più di qualcuno nel paese era a conoscenza della dinamica, inclusa probabilmente anche la madre della giovane.
Ma allora perché questo silenzio?
La risposta è arrivata con le poche centinaia di persone che si sono recate alla fiaccolata di solidarietà nei confronti della vittima. “È una ragazza movimentata, c’era da aspettarselo” si può leggere sui principali portali d’informazione.
E d’altra parte, per tornare alle tristi parole dell’attuale preside della scuola, il signor Sclapari, a smentirle è un tema scritto dalla stessa ragazza, il cui contenuto è arrivato alla psicologa che la segue nel suo percorso. In quelle pagine la giovane ha cercato di spiegare la sua rabbia nei confronti dei genitori ai quali nascondeva sì le violenze subite, senza però abbandonare la speranza che potessero intuire qualcosa. Dunque una debole richiesta di aiuto.
Un preside che sminuisce così il ruolo della scuola e dell’educazione forse non è in grado di rendersi conto di quanto invece i giovani vivano attivamente la propria realtà scolastica. Purtroppo nel sud situazioni del genere sono piuttosto frequenti e troppo spesso la reazione dei concittadini delle vittime è affine a quella degli abitanti di Melito. Occorre quindi che proprio la scuola incominci un lavoro di riabilitazione sociale, partendo magari proprio dall’immagine e dalla concezione della donna, vista ancora come un possesso, una subordinata al volere maschile.
Bisogna insegnare ai giovani il rispetto della persona in generale e di quella di sesso femminile nello specifico, per eliminare ogni traccia di vecchi retaggi che vogliono l’uomo padrone e la donna sottomessa socialmente e sessualmente a lui. Nelle ultime settimane di agosto media e social non hanno fatto altro che polemizzare sulla questione burkini, sottolineando come il velo e la sua imposizione sia inaccettabile nel ventunesimo secolo.
La realtà è che ogni cultura ha il proprio retaggio con cui fare i conti, il proprio “velo” con cui continua a sottolineare la condizione di inferiorità femminile, e con cui confrontarsi quotidianamente. E, come dimostra questo non isolato caso nel sud Italia, il nostro paese non costituisce di certo un’eccezione.
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