Insulti, parolacce, lancio di sedie e portapenne, schiaffi: è quanto subito il 2 maggio 2019 da una docente dell’istituto professionale Einaudi di Lodi, “colpevole”, di non aver informato l’aggreditrice della sospensione della figlia per 15 giorni. Dopo la solidarietà espressa alla docente dal Prefetto Marcello Cardona e dal Ministro Marco Bussetti, l’assalitrice aveva preannunciato ai giornali le proprie scuse alla Professoressa (la quale però sostiene di non averle ricevute): «Ho picchiato, è vero, ma solo perché ero spaventata».
Se un docente non è più considerato pubblico ufficiale
Fin qui, tutto “normale”: da qualche anno questa è la tendenza, e quasi quasi ci stiamo tristemente abituando a simili assurdità. Ma la notizia veramente grave (e passata quasi inosservata) è un’altra: il 16 gennaio scorso, alla prima udienza del processo, alla madre “spaventata” che aggredì la docente non è stato contestato il reato di lesioni aggravate a pubblico ufficiale, ma a “incaricato di pubblico servizio”. Di fatto, quindi, non solo il reato è stato derubricato a fatto meno grave; la beffa vera è che la docente non è stata riconosciuta come pubblico ufficiale, ribadendo per di più la degradazione della Scuola da istituzione a “servizio”, malgrado la Costituzione e i precedenti orientamenti giurisprudenziali. Alla notizia non è stato dato il dovuto risalto, ma proprio per questo è utile rifletterci sopra e riconsiderarla in tutta la sua portata.
Vergognarsi di insegnare?
La pedagogia sociale predominante — quella che paga i docenti come netturbini e li considera meno “produttivi” dei medesimi — sta lanciando segnali precisi ed inequivocabili circa il ruolo (subalterno a dir poco) cui gli insegnanti dovrebbero rassegnarsi. I Dirigenti Scolastici, spesso, anziché adempiere all’obbligatorietà dell’azione penale in caso di aggressione ai docenti (pubblici ufficiali, appunto, senza se e senza ma), si comportano come salomonici pacieri fra aggressori ed aggrediti, quasi si trattasse di metter d’accordo due automobilisti dopo un tamponamento.
La decisione di uccidere gli immortali
“La caduta degli dèi”: così potremmo definire quanto sta accadendo a docenti e medici. Queste due figure, un tempo le più rispettate — e diremmo persino a volte venerate — a tutti i livelli, dalla società italiana, sono oggetto di un’autentica demolizione a tempo. Non si contano più, infatti — oltre agli insegnanti — i medici e paramedici aggrediti, insultati, picchiati durante l’esercizio della loro professione. E ciò accade — urge ricordarlo — in un Paese dotato di un’istruzione pubblica e di un sistema sanitario tra i migliori al mondo: non perché perfetti; ma perché in un pianeta devastato dal neoliberismo, in cui istruzione e sanità sono state distrutte e privatizzate, l’Italia ha ancora una Scuola che istruisce e rende colti gratuitamente, e ospedali che salvano vite gratuitamente, in tutto il territorio nazionale, senza chiedere al cittadino la carta di credito per istruirlo o curarne la salute.
I frutti di una trentennale propaganda
Perché sta accadendo tutto ciò? Non sarà forse per la trentennale campagna di criminalizzazione di tutto ciò che è pubblico? Non sarà perché le scelte neoliberiste — praticate da tutti i Governi di ogni colore e tendenza dal 1989 ad oggi — si sono mosse coerentemente nella direzione del prossimo smantellamento di tutto ciò che è pubblico? Per 30 anni abbiamo sentito il coro dei media mainstream accusare Scuola e Sanità pubbliche di essere “improduttive”, “disorganizzate”, “spendaccione”. Per 30 anni le uniche occasioni in cui si è parlato di Scuola e Sanità è stato per casi di “malasanità”, o per diffamare gli insegnanti “sessantottini”, “ignoranti”, “impreparati”, “sindacalizzati”, “fannulloni”, “paludati”, “fascisti”, “comunisti” e via fantasticando (e generalizzando) nel dir tutto e il contrario di tutto. Tutto, purché si privatizzasse, e lo si facesse presto.
La profezia di P. P. P.
Possibile che la realtà sia così triste? È mai possibile che il Potere non miri più a formare cittadini leali, intelligenti, colti, che amino le istituzioni e se ne fidino?
Il 20 ottobre 1973, sulla Rete 1 RAI, durante la trasmissione “Controcampo”, Pier Paolo Pasolini pronunciò parole che oggi suonano illuminanti. Le abbiamo ritrovate in una vecchia rivista, “Storia Illustrata”, del febbraio 1986, citate in un articolo firmato da Mauro Anselmo col titolo “Il ’68 ha aiutato il Potere”.
Pasolini si chiede: «Che tipo d’uomo vuole il nuovo Potere (…)? Non vuole più che l’uomo sia un buon cittadino, un buon soldato, che sia una persona onesta, previdente, ecc. ecc. Il nuovo Potere non vuole che gli uomini siano tradizionalisti e nemmeno religiosi. Cosicché (…) anche la Chiesa, che in un certo senso era quella che difendeva certi valori tradizionali, a questo punto risulta superflua al nuovo Potere, che probabilmente finirà con l’accantonarla. Al posto di questo tipo di uomo, il Potere vuole che l’uomo sia semplicemente un consumatore. (…) Ora, l’acculturazione è quell’operazione che il Potere fa per ridurre tutto, per omologare tutto, secondo i modelli di una Cultura Centrale, cioè di una Cultura del Potere. (…) Praticamente il ’68 ha aiutato il nuovo potere a distruggere quei valori di cui il potere voleva liberarsi».
Ebbene, Pasolini sbagliava? O la sua analisi si è rivelata realistica?