Più che di lupi si deve parlare di iene: belve che assalgono solo prede deboli, indifese, e che lo fanno in branco, senza rischi personali. “Iene” e “figli mostri” definisce Paolo Crepet i giovani stupratori della povera ragazza di Palermo: non “lupi”. In effetti chiamarli lupi — come ha fatto un noto personaggio televisivo vicino alla compagine governativa — li nobiliterebbe. Il lupo simboleggia non solo violenza e crudeltà, ma anche, in certo qual modo (soprattutto nell’area politica dell’estrema destra), fiera libertà e coraggio.
Hitler chiamava “i miei lupi” le “SS” (“Schutzstaffel”, “Squadre di salvataggio”), criminale braccio armato del partito nazista. “Wehrwolf” (“Armata del lupo”) o “Werwolf” (“Lupo mannaro”) era il nome della squadra di SS che mise a segno azioni di sabotaggio delle linee alleate durante la fase finale della seconda guerra mondiale. Il “Wolfsangel” (“gancio per lupi” fu uno dei primi simboli del movimento nazionalsocialista delle origini.
La scelta del lupo, per definire gli stupratori, potrebbe addirittura suscitare una qualche maligna simpatia per i medesimi, perché il lupo simboleggia una violenza che ha in sé anche qualcosa di coraggioso ed eroico. Infatti, nell’immaginario nazista la violenza è segno di distinzione dell’Übermensch che non prova pietà, dacché la pietà per i nazisti è segno di debolezza e inferiorità.
Gli epigoni odierni di simili ideologie deliranti fanno uso esplicito e ricorrente di simboli, tatuaggi e stilemi mentali di questo tipo: basti dare un’occhiata alle curve degli stadi per rendersene conto.
Ciò non significa, ovviamente, che i giovani violenti d’oggi siano tutti nazisti. Significa però che molti giovani si nutrono e sguazzano nello stesso brodo di coltura di cui si alimentano i disvalori del nazifascismo: disprezzo per il debole, annullamento di qualsiasi remora morale ed etica, gregarismo nel compiere azioni ignominiose, leaderismo del più violento e senza scrupoli, che si fa capobranco compiendo le peggiori e più vomitevoli violenze davanti ai cellulari degli “amici”, pronti ad esibirle sui social media.
Come siamo potuti giungere a tanto, noi figli della Penisola che ha generato e nutrito la civiltà occidentale? La violenza sulle donne è sempre esistita, purtroppo, ma negli ultimi tempi si notano segni di un peggioramento del clima da cui questi episodi si sviluppano. Come spiegarlo?
I genitori (grosso modo quarantenni e cinquantenni) della attuale generazione di adolescenti sono nati e vissuti per tutta la vita in un Paese ove tutti i televisori sono perennemente sintonizzati su programmi-spazzatura di reti televisive spazzatura, la cui programmazione è pensata unicamente per vendere spazi pubblicitari. La pubblicità non è certo finalizzata all’educazione culturale, civica, etica, ma al suo contrario (ossia all’ignoranza e all’induzione di pensieri elementari: altrimenti non potrebbe vendere tante merci superflue, quando non controproducenti). E, siccome piove sul bagnato, internet, smartphone e social media — gestiti da potenti multinazionali finalizzate al profitto — hanno fatto tabula rasa di qualsiasi progetto (e volontà politica) di contrastare l’imbarbarimento.
Lungi da noi l’idea di uno Stato etico: tuttavia è mai possibile che non si possa trovare il giusto mezzo tra uno Stato etico ed una deregulation totale e devastante, che getta in pasto volgarità, stereotipi d’ogni tipo e violenza anche ai bambini più piccoli?
Genitori, allevati in un Paese che da almeno quarant’anni ha rinunciato al gusto del bello, del giusto e del vero (sdoganando ogni sorta di falsità, arroganza e bruttura), hanno tirato su una generazione di fanciulli senza regole, senza discernimento, indifferenti a chiunque stia loro intorno, incapaci di distogliere lo sguardo dalla chat e dai social, certi che tutto sia loro dovuto, e sicuri di poterselo prendere come, quanto e quando vogliono. Degni figli della società che stiamo creando.
Perché meravigliarsi, dunque, che stuprino ragazze indifese, forti del branco di belve cui si vantano (sui social) di appartenere? Perché stupirsi se uccidono a calci una indifesa capretta nell’agriturismo di cui sono ospiti (come accaduto pochi giorni fa ad Anagni e raccontato da Laura Bombaci su La Tecnica) per “divertirsi” e mettere su YouTube i filmati della loro “eroica” impresa? Non c’era da aspettarselo che, in un clima del genere, degli adolescenti arrivassero ad uccidere un clochard di colore, che altri ammazzassero un senzatetto marocchino di 64 anni bruciandolo vivo nella sua auto?
Perché allora dare — come sempre da 40 anni — la colpa alla Scuola? Perché la prima (e anche ultima nonché unica) soluzione che tutti i politicanti sanno trovare è «cominciare dalla Scuola»? Perché dimenticano che proprio la Scuola è stata in questi 40 anni l’istituzione più definanziata, screditata, ridicolizzata, calunniata, sabotata, aziendalizzata, gerarchizzata, privatizzata (de facto, anche se non ancora de iure) insieme ai suoi vituperati (e mai interpellati) insegnanti?
Tutto è coerente con la pedagogia sociale che questo Paese ha scelto da un quarantennio (e che nulla ha a che fare col ‘68, semmai con l’uso strumentale e reazionario di molte istanze democratiche del ‘68 stesso, opportunamente deformate e strumentalizzate con finalità opposte a quelle per le quali quelle istanze erano state formulate).
Non per caso si è giunti al punto in cui siamo. Nella migliore delle ipotesi, in questi ultimi decenni ha prevalso, in ambito mediatico e politico, la “spensieratezza” nel gestire la politica scolastica ed educativa della nazione. Ed ora, di questa politica, gustiamo i succulenti frutti.
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