“Tutti potranno essere ammessi all’anno successivo, ma tutti saranno valutati, nel corso degli scrutini finali, secondo l’impegno reale. Non ci sarà nessun 6 politico”: lo ha detto la ministra Azzolina, ma, anche se mancasse un solo 6% (come sostiene il Miur) della platea degli alunni connessi per la didattica a distanza, circa 450mila bambini e ragazzi sarebbero tagliati fuori “dalle loro stesse vite”.
E inoltre, si legge sul portale Vita.it, a “ tanti minori sta venendo a mancare per causa del coronavirus il tempo e lo spazio della socialità, dell’educazione, dell’apprendimento, ma anche la possibilità di essere sottratti, anche se per un tempo limitato, alla precarietà, all’abbandono educativo, al disagio familiare, fino a carenze nutrizionali ai quali li hanno destinati le condizioni e/o la geografia della loro nascita. Per questi soggetti la chiusura delle scuole, le difficoltà di accesso alla didattica a distanza, senza interventi mirati, aumenterà l’isolamento, l’esclusione, la discriminazione. E, in alcuni casi, nella convivenza forzosa, potrebbero accentuarsi dinamiche domestiche conflittuali.
Saranno proprio costoro “a pagare un prezzo altissimo della crisi sociale” conseguente all’emergenza coronavirus.
Oltre alle misure di sostegno, suggerisce Vita.it, per superare il gap tecnologico occorrono l’impegno delle scuole di procedere celermente alla dotazione di materiale informatico agli alunni che non ne sono forniti; l’obbligo per gli insegnanti di segnalare i casi di minori che non risultino “contattabili” a distanza; un’unica piattaforma per la didattica a distanza messa a disposizione delle scuole dal Ministero per facilitare l’accesso di docenti, alunni, genitori alle piattaforme digitali, come succede in altri Paesi; la fornitura dei pasti in sostituzione della mensa scolastica, l’intervento di educatori a casa, quando possibile, bibliobus circolanti, il monitoraggio costante delle condizioni di vita dei minori in situazione di isolamento. Naturalmente garantendo le dotazioni sanitarie di sicurezza per gli operatori.
Ma la domanda è: si possono tradurre in voti, come chiede la nota n. 388 a firma del capo Dipartimento per il sistema educativo di istruzione e di formazione Marco Bruschi, le variegate e inusuali ricerche di contatti significativi che insegnanti e studenti stanno cercando di istituire in queste settimane? Ha senso richiedere di assegnare voti in una situazione in cui mancano i presupposti per poter mettere tutti nelle stesse condizioni di apprendimento? In condizioni di precarietà della relazione insegnamento/apprendimento, in assenza di pari condizioni di accesso, e di una narrazione comune e condivisa cosa è possibile verificare? Ha senso applicare una stessa scala per valutare situazioni di contesto molto diverse tra loro?
Non è pensabile – precisa il portale – semplificare una operazione complessa come la valutazione e farla diventare una semplice “misurazione”. Non lo è ancora di più con pratiche didattiche “fredde”, non consolidate, non accessibili a tutti e in ugual misura come quelle possibili con la didattica a distanza. Un assurdo docimologico, educativo, in una situazione emergenziale di grave precarietà del sistema Scuola, dove il voto determinerebbe ulteriori discriminazioni ed esclusioni e potrebbe contribuire ulteriormente alla dispersione scolastica.
E allora, non “servono i voti ma il dialogo pedagogico e il rinforzo del bisogno di valere di ogni bambino/a, ragazzo/a”. In questa fase si dovrebbe finalmente sperimentare il ricorso alla sola valutazione sommativa in funzione formativa a termine dell’anno scolastico, con modalità descrittivo-qualitative dei risultati raggiunti per le classi intermedie. In questa direzione il Ministero potrebbe riproporre per la valutazione di fine anno un modello di scheda di valutazione senza voti, anche per la scuola secondaria di secondo grado. Ma occorrono soprattutto: valutazione, autovalutazione e riprogettazione là dove si rilevano dei limiti o delle difficoltà nel rispetto dei diritti dei minori.
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