Leggendo la lettera “Valutazione, Daniele Novara: ‘Tra genitori che gongolano e altri che si lagnano è una corrida volta solo a superare i compagni'” mi è venuta in mente una popolare espressione romanesca: “ah ridaje!”, usata per esprimere la seccatura e la rottura che si provano quando si torna per l’ennesima volta a parlare di un argomento vecchio, trito e ritrito, fritto e rifritto.
E ho ripensato anche alla “rivoluzione” – direi presto fallita – che a suo tempo introdusse i giudizi al posto dei voti numerici, con insegnanti irritati perché dovevano scrivere parole su parole per esprimere quello che invece fino ad allora si era detto con un numero. E tale irritazione – e confusione – colpiva anche i genitori, che dopo aver letto – e spesso non aver capito – il significato dei giudizi andavano dagli insegnanti a chiedere: “ma insomma, mio figlio alla fin fine quanto ha preso? Questo giudizio a che voto corrisponde?”.
E così nacque l’ennesimo Ufficio Complicazione Affari Semplici.
Ma se qualcuno aborrisce tanto i numeri ed ama tanto i giudizi, perché allora non estendere questo sistema anche ad altri aspetti della vita? Per esempio nello sport: invece di numerare il punteggio delle squadre nel campionato di calcio o di un altro sport, introduciamo un sistema di giudizi a base di “bravo”, “bravino”, “quasi bravo”. Vorrei vedere cosa succederebbe.
Tutti questi barocchismi nascondono a mio parere una paura: la paura della valutazione, alla quale ci si vorrebbe magari sottrarre. Ma tanto se non valuta la scuola valuta poi la vita.
Una cosa però va detta chiaramente: la valutazione dev’essere giusta ed equa. Come imparare a valutare con giustizia ed equità? Esiste una scienza chiamata docimologia, che insegna proprio a valutare correttamente. Ed è questa scienza che – accanto a psicologia, pedagogia e simili – andrebbe inserita nei corsi di preparazione all’insegnamento.
Daniele Orla