Il tema del voto e della valutazione continua a tenere banco fra i docenti e non solo.
Proprio qualche giorno fa la sottosegretaria Paola Frassinetti ha annunciato di voler proporre il ritorno al voto numerico anche nella scuola primaria.
E sempre lei sarà fra i relatori del convegno “La scuola del merito. I voti preparano al futuro” promosso da Fratelli d’Italia in programma al Senato per il prossimo 16 novembre.
Ma forse, per capire se i voti servono e se “preparano al futuro”, sarebbe bene chiarire i termini del problema.
Ne parliamo con Cristiano Corsini, docente di pedagogia all’Università di Roma Tre, autore di un recente saggio (La valutazione che educa) che sta incontrando molto interesse fra i docenti.
Professore, vogliamo spiegare meglio le parole che spesso si usano quando si parla di questo argomento?
Partiamo dal termine misurazione: con questa parola si intende l’osservazione della distanza tra attese e realtà. Vale a dire che misuriamo operando un confronto tra lo svolgimento di determinate attività e i nostri obiettivi (per esempio, quante e quali risposte esatte sono state fornite?, a quali domande? ecc.).
Quindi la misurazione serve a valutare?
Diciamo che la valutazione educativa è il giudizio di valore emesso sulla distanza rilevata misurando, ed è un giudizio utile ad assumere decisioni che ci consentano di ridurre tale distanza. Per fare questo è necessario descrivere l’attività fornendo indicazioni concrete per migliorarla.
Anche il voto misura gli apprendimenti?
Il voto in sé non è una misurazione ma è una particolare forma comunicativa di una particolare forma di valutazione, ovvero quella sommativa. La valutazione sommativa serve a indicare il livello degli apprendimenti raggiunto al termine di un percorso. Il voto è una sintesi ordinale e può essere numerica (“6”, “18”) o non numerica (“sufficiente”, “base”). Esprimere il voto numericamente non trasforma una scala ordinale in una scala a intervalli: fare la media aritmetica coi voti numerici è un errore gravissimo.
Ma allora a che serve il voto?
Il voto non risponde a esigenze educative ma rendicontative. È per questo motivo che il voto può avere senso al termine di un percorso (scheda, diploma, libretto universitario cartaceo o meno che sia), ma non nella valutazione educativa svolta in itinere.
Perché?
Perché la valutazione educativa in itinere si chiama valutazione formativa, è la forma più efficace di valutazione e serve a dare forma a insegnamento e apprendimento. Se usiamo il voto in itinere tendiamo a riprodurre la situazione iniziale piuttosto che a migliorare gli apprendimenti o l’insegnamento”.
Però di fatto il voto viene spesso usato anche nella valutazione in itinere. Perché?
Per vari motivi.
Intanto perché per fornire una valutazione descrittiva ci vogliono solide competenze metodologico-didattiche. In questo caso, il voto è un’esigenza dell’insegnante, non di studentesse e studenti.
In secondo luogo perché così è più comodo arrivare alla valutazione sulla scheda, magari facendo la media aritmetica. In questo caso, il voto è un’esigenza dell’insegnante, non di studentesse e studenti.
E poi forse ci sono anche le consuetudini…
Sì, molti affermano che si è sempre fatto così e magari ci si convince che lo imponga la legge. La legge però non impone l’uso del voto in itinere. E anche in questo caso, il voto è un’esigenza dell’insegnante, non di studentesse e studenti.
Però va anche detto che spesso sono anche le famiglie che vogliono in voti con la motivazione che così si capisce meglio “a che punto è” lo studente.
Si questo accade perché le famiglie, ma anche le studentesse e gli studenti per anni hanno ricevuto solo voti. E hanno ricevuto solo voti perché il voto è un’esigenza dell’insegnante, non di studentesse e studenti.
In pratica, il voto è un capriccio adulto trasmesso da una generazione all’altra.
Continuare a usare il voto in itinere significa legittimare i mancati investimenti sulla formazione metodologico-didattica e i bassissimi stipendi del corpo docente. Un brutto compromesso al ribasso.
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