Desidero dire la mia su due articoli riguardanti la valutazione/votazione.
Cominciamo con “Il voto incoraggia una idea competitiva della scuola (e della società), ecco perché piace molto alla destra“.
Ma tutta la vita è competitiva: la competizione – che io peraltro preferisco chiamare “nobile gara di emulazione” – è quella che permette alla società di progredire e migliorare. Perché poi sarebbe di destra? Vuol dire che la sinistra non compete, non emula? Se è così allora si torna all’idea di appiattimento e livellamento cara ai sessantottini, decisamente contrari all’idea di applicarsi, impegnarsi e – orrore! – faticare.
Giudizi al posto dei voti? Andatelo a dire ai poveri insegnanti – allora solo delle elementari – che dovevano passare ore e ore a “descrivere i punti di forza e di debolezza del lavoro svolto e le azioni da intraprendere per migliorarlo”, col solo risultato di confondere le idee a scolari e genitori, che ben raramente capivano il significato dei giudizi.
“Il riscontro descrittivo trasforma la realtà, mentre il voto la conserva così com’è”: e meno male! La realtà va vista per quello che è, non trasformata artificialmente e artificiosamente in qualcosa che non è.
E veniamo a “Voto numerico: c’è anche chi lo considera un feticcio e vorrebbe eliminarlo persino nella scuola secondaria“.
Cosa vuol dire “personalizzare il percorso formativo di tutti gli studenti e poi valutarlo in termini di competenze acquisite e traguardi raggiunti”? Che occorre creare un programma di studio per ogni allievo? Per es. 20 allievi significherebbe 20 programmi di studio diversi? E redatti in base a cosa? In base a quello che allo studente piace e in cui riesce? Se così è, cosa certificherebbero i vari titoli di studio conseguiti? Competenze diverse da studente a studente?
E i voti non avrebbero “nessun aggancio al reale percorso dello studente”? Beh, è proprio il contrario: se lo studente sa prende bei voti, se non sa li prende brutti.
E se il perverso sistema dei giudizi approdasse anche alle superiori (e magari perché no all’università?) Vi immaginate un datore di lavoro che voglia capire com’è stato il rendimento scolastico di un collaboratore per decidere se assumerlo o no: come fa a valutare leggendo parole e parole e parole che non dicono nulla?
No, non ci siamo. Tutto questo mi sa di ennesimo tentativo di contrabbandare uno scopo che da tempo una certa parte politica persegue: niente voti per non dover sgobbare sui libri, tutti promossi senza dover studiare!
Daniele Orla
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