Si discute tanto sul mantenimento o l’abolizione dei voti numerici, ma non ci si pone mai la domanda: “Per cosa dare i voti?”. Un esempio tratto dalla mia vita scolastica chiarirà un pensiero condiviso da tanti insegnanti.
Gennaio 1971, prima media, interrogazione d’italiano: l’Iliade. Un argomento che permette di spaziare e sguazzare. Un mio compagno ne recita alcuni versi a memoria (lo studio mnemonico un tempo era la regola e la memoria degli studenti di allora era più esercitata di quella degli studenti di adesso), ne illustra alcuni aspetti e poi l’insegnante gli dice: “Parlami delle divinità greche presenti nell’opera”. Silenzio imbarazzato e conseguente incazzatura del prof, tipo piuttosto nervosetto: “Ecco, non conosci neanche la mitologia dell’Iliade. Vai a posto: 4!”.
Ma … ragiono io fra me e me: dargli 4 solo perché non conosce personaggi che neanche esistono (è mitologia!)? Dagli 4 se dice “a me mi” o “ma però” o se non sa usare la consecutio temporum o i congiuntivi (argomenti grammaticali per cui anche tanti adulti meriterebbero una bella insufficienza), ma solo per lacune sui degli greci… Insomma mi è parso troppo.
Questo principio valutativo ha informato tutta la mia vita di insegnante: ho sempre privilegiato i contenuti importanti della mia disciplina (lingua e letteratura tedesca) e ho sempre tralasciato aspetti secondari, soprattutto di letteratura, ben sapendo che ai fini della conoscenza della lingua sarebbero stati ininfluenti.
Daniele Orla
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