«Perché WeSchool è così innovativa? Prima di tutto, forma i docenti sulle nuove metodologie didattiche: permette loro di portar la propria classe online, condivider materiali, discutere, collaborare, far verifiche e test. Integrata con tutte le piattaforme di contenuti abitualmente utilizzate (YouTube, Google Drive, Dropbox), permette di crear lezioni interattive». Entusiastico l’articolo uscito su HuffPost il 5 novembre scorso (dal trionfale titolo “Il digitale salverà la scuola”), contenente un’intervista a Marco De Rossi, definito dalla giornalista Ilaria Betti “uno che di scuola digitale se ne intende”.
«WeSchool», continua l’articolo, «ha pensato ad alcuni superpoteri per i professori del futuro, tra cui la “supervelocità”: “Con WeSchool anche se non hai competenze informatiche puoi creare Test avanzati: prepara al volo un cruciverba, un abbina le coppie o un videoquiz. Combina 9 tipi di domande per creare esercizi e verifiche davvero coinvolgenti! Crea, condividi, correggi e ripeti, in un attimo!”».
I miti della quarta rivoluzione industriale ci sono tutti: immediatezza, velocità, semplicità, facilità, divertimento. L’alunno, “utente” della scuola-azienda nell’era dell’Industria 4.0, deve imparare senza annoiarsi. Anche perché annoiato lo è sempre più, in un sistema che incolla occhi e dita al “device” di cui è proprietario (e schiavo). Quindi urge stimolarlo con qualcosa di sempre nuovo. Del resto, “per chi non è abituato, pensare è sconsigliato”; meglio quindi non fermarsi a pensare. Velocità, immediatezza, facilità.
Classe 1990, De Rossi è fin da piccolo un genio dei computer. Tanto da fondare WeSchool, che Il Sole 24 ore (giornale di Confindustria) definisce «la piattaforma di didattica digitale usata da 2 milioni di studenti ogni mese per studiare digitalmente col proprio smartphone e da 50.000 docenti per cambiare il modo di fare didattica». Unica piattaforma italiana suggerita dal Ministero dell’Istruzione per la DaD (in un precedente articolo ci siamo chiesti i perché di questa scelta ministeriale, ma non abbiamo ricevuto risposta). Piattaforma che sicuramente ha almeno il pregio indiscutibile di esser molto remunerativa per chi la gestisca.
Il nome WeSchool è stranamente identico a quello di una business school indiana fondata nel 1977 Mumbai, che offre un diploma post-laurea in gestione in nuove aree (vendita al dettaglio, progettazione e innovazione aziendale, gestione rurale, sanitaria e dei media, intrattenimento, e-business). Una semplice omonimia, sicuramente. Tuttavia l’ideologia di base è la medesima: lo dimostrano le parole di De Rossi su HuffPost (blog proveniente dagli Stati Uniti e presente dal 2012 anche in Italia in stretta collaborazione con il Gruppo Editoriale L’Espresso).
«La DaD», vaticina il De Rossi, «non è un professore che si connette e che dice tutto quanto sa su un argomento. È utilizzar tecnologia per creare coinvolgimento, partecipazione, per spingere gli studenti a fare davvero qualcosa. Non è tenerli lì, oltre lo schermo, immobili, muti. (…) È una visione diversa della scuola. Vuoi studiare la rivoluzione francese? Ci sono milioni di strumenti che da studente puoi utilizzare per approfondire l’argomento. Vuoi insegnarla? Ce ne sono altrettanti per far sì che il professore appassioni davvero la sua classe al tema. (…) La spiegazione non scompare, ma grazie a tutte le attività che si aggiungono lo studente acquisisce una serie di soft skills utilissime in futuro. Impara, ad esempio, a far ricerche online, a capir quali sono i siti affidabili e quelli non affidabili, a comunicare in modo efficace, a leggere i giornali, lavorando in gruppo sviluppa capacità di leadership, impara a fare progetti, a realizzare siti web, a governare gli strumenti digitali».
Secondo De Rossi, quindi, la Scuola è ancora quella in cui barbosi sapientoni denominati “prof” ripetono a memoria sfilze di nozioni a mo’ di rosario: i “prof” però non sanno usare le tecnologie, unica arma per coinvolgere studenti incapaci, oramai, di ascoltare parole e tramutarle in concetti, consapevolezze, inferenze e rielaborazioni personali; e siccome con le tecnologie li si è resi incapaci, bisogna insistere con le tecnologie per farli tornare ad usare l’ormai atrofico cervello (un po’ come toglier loro la sete col prosciutto).
C’è da chiedersi: l’enfant prodige di WeSchool è consapevole di cosa siano gli studi pedagogici? Cosa significherebbe abituare i bambini delle Primarie a imparare attraverso le macchine (anziché attraverso il rapporto umano con gli insegnanti) fin dai cinque anni d’età? Che significa “fare ricerche” senza una base culturale che guidi le ricerche stesse (a meno che non le si intenda come mero copincollare, magari in gruppo e in modalità “blended”)? A cosa servirebbero le “soft skills”se chi le usa non avesse acquisito prima le conoscenze culturali (e le capacità razionali che ne conseguono)? Anzi, come possono nascere queste famose “competenze trasversali” se non da una preparazione culturale solida, che prepari, peraltro, il discente anche ad operare scelte sulla base di valori etici frutto di riflessione approfondita? E tutto questo patrimonio di etica, pedagogia, cultura, accumulatosi da Socrate all’illuminismo ai giorni nostri, è ormai inutile solo perché non interessa al mondo degli affari del terzo millennio?
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