Vero o preparato che sia, come alcuni magazine americani stanno in queste ore rilanciando, fatto sta che il pugno o schiaffo di Will Smith a Chris Rock, come era prevedibile, non è passato inosservato.
Da un lato una battuta di cattivo gusto, se non offensiva, nei confronti della moglie di Smith, dall’altro una reazione, preparata o meno, che dice del clima che stiamo vivendo.
Fatto di una continua tensione relazionale, per cui si dà quasi per scontato che la reazione ad una ingiustizia subita sia una forma di violenza, sotto forma dell’esercizio della volontà di potenza.
Come dire che ogni possibilità di dialogo, anche dialogo franco e capace dì indurre a delle scuse, non è o non sarebbe più contemplato tra i nostri comportamenti, ragionamenti, riflessioni.
Penso qui, per capirci, alla violenza verbale, presagio di altre ambite forme dì violenza, che leggiamo sui social.
Sia che il gesto di Smith sia stato preparato, per risvegliare forse dal torpore della cerimonia, sia che si sia trattato di una reazione estemporanea, resta la considerazione che una società delle buone maniere, come si sarebbe detto un tempo, non esiste più. O che, forse, non sia mai esistita. Perché, al dunque, il ricorso alle maniere forti, se non alla violenza, è dato per automatico. Cioè senza bisogno di pensare e di pensarci.
Per cui, mentre tutti invochiamo pace, ragionevolezza, equilibrio, temperanza, in realtà viviamo in un contesto che pensa che il richiamo alla violenza, nei gesti, nei comportamenti, nelle considerazioni, sia un fatto normale, addirittura giusto e giustificabile.
Secondo questa convinzione la parola pace finisce per significare equilibrio, sempre instabile, di violenze. Mentre la domanda su come cercare di sradicare in tutti noi ogni pensiero di guerra, di conflitto permanente e mascherato, è e resta una pura utopia.
Allora aveva ragione il vecchio Eraclito con il suo “la guerra è madre di tutte le cose”, come anche Hobbes col suo “homo homini lupus “, infine Hegel con la guerra vista come antidoto all’infiacchimento dei popoli.
E l’ascoltarsi, e il riconoscersi anche nei nostri limiti (individui, gruppi, popoli, Stati) e il chiedersi scusa e perdonarsi (per-donarsi, o donarsi-per): tutte parole al vento, mere utopie di qualche idealista impenitente.
E la fratellanza, terza della triade illuminista dopo libertà e uguaglianza, solo una parola vuota, come la stessa storia francese di quegli anni ha insegnato, col terrore rosso prima ed il terrore bianco poi a porre fine a quell’esperienza rivoluzionaria.
Resta il compito al quale non possiamo sottrarci, nei vari ambienti e ai diversi livelli: educarsi ed allenarci alla fraternità, ma una fraternità pensata, costruita, sperimentata. Sapendo che la perfezione anche di questa tentata fraternità più che una conquista è un donarsi reciproco della parte migliore di noi stessi. Oltre le istintualità, oltre le volontà dì potenza, oltre le tentazioni di supremazia e dì potere. Oltre. Ma capire questo oltre è già segnare il senso di una vita, la nostra.
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